Nel 2025 oltre un lavoratore su dieci è povero: un fallimento strutturale che smentisce la narrazione sull’occupazione
Nel Paese in cui ogni conferenza stampa del governo inizia vantando un “record di occupati”, c’è un dato che viene sistematicamente nascosto sotto il tappeto: in Italia oggi lavora e resta povero oltre il 10% degli occupati. È la fotografia che emerge con chiarezza dall’articolo di Lorenzo Ruffino pubblicato da Pagella Politica. Una lettura che smentisce, con i numeri, l’autocelebrazione.
Secondo i dati Eurostat, nel 2024 il 10,2% dei lavoratori italiani era a rischio povertà, in aumento rispetto al 9,9% dell’anno precedente. Parliamo di persone che hanno lavorato almeno sette mesi in un anno ma che, anche dopo imposte e sussidi, hanno un reddito disponibile troppo basso per vivere dignitosamente. È un fenomeno che, nei termini tecnici, si chiama in-work poverty: povertà da lavoro.
La retorica del lavoro come emancipazione è una favola
Il 10,2% italiano è molto più alto della media europea (8,2%) e supera quella di Francia (8,3%) e Germania (6,5%). Solo Lussemburgo, Bulgaria e Spagna hanno dati peggiori. Ma la vera questione non è il confronto con altri Paesi: è la narrazione tossica e distorta che continua a spacciare l’occupazione come condizione automaticamente sufficiente per uscire dalla marginalità economica.
Secondo i dati riportati da Ruffino, gli uomini sono più colpiti (11,7%) rispetto alle donne (8,3%), anche se il divario si sta lentamente assottigliando. Il rischio cresce vertiginosamente per chi ha contratti part-time: in Italia il 15,7% di questi lavoratori è povero, contro il 12,8% della media Ue. Un dato che, peraltro, si è ridotto rispetto al 2013, quando toccava il 19,2%. Ma resta strutturalmente alto, in particolare al Sud.
Contratti fragili, salari miseri
L’Inps, nel suo ultimo rapporto, individua il cuore del problema nei contratti atipici: tempo determinato, part-time involontario, lavoro intermittente e apprendistato. Nel 2022, tra i lavoratori part-time a tempo determinato, il rischio povertà era del 19,3%, con un picco del 23,8% nel Mezzogiorno.
Ma c’è di più. L’Inps distingue tra chi è povero per ragioni contingenti (malattia, maternità, cassa integrazione) e chi lo è per ragioni strutturali. Esiste infatti una fetta crescente di lavoratori poveri nonostante un impiego pieno e continuativo. Persone che lavorano a tempo pieno, tutto l’anno, e non riescono comunque a guadagnare abbastanza. Il loro problema è semplice: il salario.
Ed è qui che la retorica governativa inciampa nella realtà: perché questo zoccolo duro di povertà non si annida nei lavori irregolari, ma in settori coperti da contratti collettivi firmati dalle principali sigle sindacali. Commercio, vigilanza privata, logistica, ristorazione, servizi alla persona: settori dove la contrattazione non basta a garantire un reddito dignitoso. La legge nemmeno.
La povertà come condizione normalizzata
A questa povertà calcolata si aggiunge un’area grigia che sfugge alle statistiche ufficiali ma che è parte integrante del mercato del lavoro: finte partite Iva, autonomi mascherati da dipendenti, lavoro nero e contratti pirata. Una zona franca dove il lavoro impoverisce, senza nemmeno la parvenza di tutele.
Di fronte a questo scenario, la risposta politica è il silenzio. Il salario minimo è diventato terreno di propaganda, e i referendum dell’8 e 9 giugno – che pure toccano il cuore di queste contraddizioni – vengono raccontati solo come scontro ideologico. Nessuno ha il coraggio di dire che nel 2025, in Italia, puoi lavorare onestamente e restare povero. Perché dirlo significherebbe ammettere che il mercato del lavoro non funziona. Che i numeri da campagna elettorale non bastano. Che serve una riforma profonda.
Ma la riforma, come il salario dignitoso, continua a restare un’eccezione. Mentre la povertà diventa, sempre di più, una regola.
21/05/2025
da La Notizia