Unicredit e Intesa Sanpaolo hanno investito oltre 11 miliardi di dollari nel 2024 per sostenere progetti fossili. Le banche italiane ignorano la crisi climatica
È possibile far finta di nulla di fronte a un mondo che va inesorabilmente verso il baratro climatico? È possibile farsi scivolare addosso le parole – anzi, le implorazioni – e le paure di scienziati, leader internazionali, attivisti, economisti, testimoni e vittime del riscaldamento globale? La risposta è sì, se sei un banchiere. E non c’è bisogno di un film con protagonista Leonardo DiCaprio per capirlo. Basta guardare ai dati del sedicesimo rapporto annuale Banking on Climate Chaos che mette nero su bianco quanto le banche di tutto il mondo continuino a finanziare aziende attive nell’estrazione e nello sfruttamento di carbone, petrolio e gas. Quei combustibili fossili che ci stanno spingendo velocemente dritti verso i 2 gradi centigradi di aumento della temperatura media globale.
Da Unicredit e Intesa Sanpaolo più di 11 miliardi di dollari alle fonti fossili
E dietro tutto questo, oltre alle compagnie petrolifere ed energetiche, ci sono proprio gli istituti di credito che finanziano i nuovi progetti fossili, dall’apertura di nuovi giacimenti alla costruzione di nuovi metanodotti. Se dal 2021 sembrava che in qualche modo, seppur lieve, si fosse invertita la tendenza, il passaggio dal 2023 al 2024 ha smentito persino i più ottimisti facendo rimbalzare gli investimenti fossili delle banche di 162 miliardi di dollari. Per un totale annuo di 869 miliardi di dollari, 7.900 miliardi dall’approvazione dell’Accordo di Parigi a oggi. E le banche italiane, da sempre rappresentate da Unicredit e Intesa Sanpaolo nella classifica, non sono da meno. E fanno registrare investimenti pari – rispettivamente – a 6,2 e 5 miliardi di dollari. Il totale dunque, esattamente come l’anno scorso, è superiore agli 11 miliardi.

«Le nostre due banche più grandi non fanno eccezione, si comportano in linea con i dati globali del rapporto», commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club. «Scelgono politiche di conservazione di portafogli fossili e d’altra parte l’indirizzo del nostro governo, schierato contro il Green Deal europeo, le rafforzano in questa convinzione».
Anche le banche italiane dietro l’espansione del gas naturale liquefatto (Gnl)
Una ricerca pubblicata lo scorso dicembre da Reclaim Finance e ReCommon punta il dito, in particolare, sul loro sostegno all’espansione dei terminali di gas naturale liquefatto (Gnl). Tra il 2021 e il 2023, infatti, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno fornito al settore rispettivamente 3,8 e 1,5 miliardi di dollari. Su un totale globale di 213 miliardi. Nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia mostri una sovracapacità del settore, sono 156 i nuovi terminali Gnl previsti entro il 2030: se tutti venissero realizzati, provocherebbero l’emissione in atmosfera di oltre 10 gigatonnellate di CO2 da qui alla fine del decennio. Poco meno delle emissioni annue di tutte le centrali a carbone in funzione nel mondo.
Per non parlare dell’impatto di queste infrastrutture sui territori e sulla vita di chi li abita. «Potete essere complici della distruzione della Terra, o potete essere nostri alleati. Queste banche stanno prendendo il vostro denaro e lo stanno mettendo in progetti pericolosi: in questo caso, diventate colpevoli come loro», ha detto a Valori Juan Mancias, portavoce della tribù di nativi americani Carrizo/Comecrudo. I progetti pericolosi a cui fa riferimento – entrambi in costruzione – sono Texas Lng e Rio Grande Lng, entrambi nella Rio Grande Valley in Texas, dove questa comunità abita da secoli. Unicredit ha ascoltato la società civile e si è astenuta dal finanziarli. Intesa Sanpaolo, invece, ha concesso un prestito di 1,08 miliardi di dollari per Rio Grande Lng. Per fermare i progetti, almeno per il momento, ci è voluta una sentenza di un tribunale federale di Washington che ha ritenuto insufficiente la valutazione d’impatto ambientale e climatico che era stata condotta.

Dalle due più grandi banche italiane 123,5 miliardi di dollari a carbone, petrolio e gas in 9 anni
La cosa che più colpisce leggendo i dati è che, in un contesto di transizione energetica ancor prima che ecologica, la metà degli investimenti fossili monitorati da Banking on Climate Chaos continui a essere destinata a sostenere l’espansione di giacimenti o nuove attività petrolifere. Nella nuova classifica, in particolare, Unicredit resta stabile. Intesa Sanpaolo invece avrebbe ridotto di oltre 1 miliardo gli investimenti, riportandoli alle cifre del 2022 dopo un 2023 da dimenticare.
Tali cifre portano il totale, dal 2016 ad oggi, a 71,8 miliardi di dollari per Unicredit e a 51,7 miliardi per Intesa Sanpaolo. I due istituti di credito, dunque, hanno alimentato la crisi climatica, a partire dall’anno successivo a quello di approvazione dell’Accordo di Parigi sul clima, con 123,5 miliardi.
E com’è possibile – in un contesto di policrisi – che questo binomio tra istituti di credito e compagnie legate al fossile non subisca alcun tipo di innovazione, o almeno di cambiamento? «Perché sono tutti concentrati nei guadagni a breve termine. E peraltro senza rendersi conto che è tutto il sistema economico basato sui fossili che è a rischio – prosegue Ferrante –. Non solo a causa della crisi climatica, ma proprio per il combinato disposto dell’innovazione tecnologica che sta già mettendo fuori mercato il gas e i suoi fratelli».
Una circostanza ben compresa dalla Cina che in questi mesi ha fatto registrare ottimi risultati nell’installazione di rinnovabili, tanto da riuscire a piegare la curva delle emissioni di gas serra verso il basso. Almeno per ora. Se questo binomio non cambia da solo «rischia – conclude Ferrante – di essere travolto con conseguenze drammatiche per cittadini e imprese che ancora fanno affidamento su quel tipo di sistema bancario».
«Solo regole vincolanti possono cambiare la rotta»
Una voce corale arriva dalle autrici e dagli autori del report. Una voce che rompe l’ultima illusione rimasta, ovvero che le banche abbiano intenzione di fare davvero la loro parte, seppur a un ritmo diverso, decisamente più lento rispetto a quanto chiesto dalla scienza. «Distrarre, rimandare, deviare e poi defilarsi. È questo il copione che stanno seguendo le banche per tenere a galla il settore fossile», denuncia Allison Fajans-Turner, co-autrice ed esponente del Rainforest Action Network.
A questo punto «solo regole vincolanti possono cambiare la rotta». Mentre per Tom BK Goldtooth, co-autore e direttore esecutivo dell’Indigenous Environmental Network, «i nostri territori non sono zone di sacrificio, né i nostri popoli danni collaterali». Infine, taglia corto David Tong di Oil Change International: «Nel 2025, non ci sono più scuse» per dare giustificazione a questo “revamping”.
Una denuncia che vale per tutti, nessuno escluso. E che deve risuonare anche ai piani alti degli istituti italiani, come Unicredit e Intesa Sanpaolo, che non hanno dato cenni di cambiamento nemmeno negli anni precedenti. Come se non sapessero quale finale aspetta loro e noi.
25/06/2025
da Valori