Di Rafah resterà solo il nome. E un genocidio che si autodistrugge per non lasciare testimoni.
Rafah scompare, centimetro dopo centimetro, sotto le lame dei bulldozer israeliani. Lenta e meticolosa, l’operazione di cancellazione avanza: si porta via le pietre, ma anche i corpi, le tracce, le prove. Quel che resta di Rafah – ultimo rifugio per mezzo milione di palestinesi in fuga dai bombardamenti – non è solo un campo di macerie, ma un laboratorio di impunità.
Israele ha già dichiarato quel territorio una zona cuscinetto, annettendosi un quinto della Striscia di Gaza. Ora, mentre i jet sorvolano le rovine e uccidono altre decine di palestinesi, le ruspe preparano il terreno per il futuro che verrà raccontato: nessuna traccia, nessuna prova, nessun crimine. Solo il deserto.
Non bastano i 51.500 palestinesi uccisi in diciannove mesi, i 117.000 feriti, i 15.000 dispersi stimati, senza contare chi è morto di fame, sete o mancata assistenza medica. Non bastano perché la fame e la sete sono diventati strumenti di guerra. Dal 2 marzo, nessun aiuto umanitario entra nella Striscia. Le scorte dell’Onu sono esaurite. E se l’Unrwa – l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi – provava a tamponare l’emergenza, la Casa bianca le ha appena tolto l’immunità, allineandosi alla narrazione israeliana che la vuole complice di Hamas. Così, il principale fornitore di cibo e assistenza rischia di essere travolto da cause e risarcimenti che lo metterebbero fuori gioco.
È un crimine che si consuma due volte: la prima sotto i bombardamenti, la seconda sotto le ruspe. Con un avallo internazionale che ha il coraggio di fingere pietà – come Donald Trump che, in volo verso Roma, confida di “voler essere buono con Gaza” – mentre smantella l’ultimo argine alla fame.
Di Rafah resterà solo il nome. E un genocidio che si autodistrugge per non lasciare testimoni.
28/04/2025
da Left