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«Subito un’indagine internazionale» sui soccorritori uccisi a Gaza

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Striscia di sangue. La Mezzaluna Rossa ha presentato i risultati dell’autopsia sui corpi delle vittime della strage a Rafah compiuta da Israele. Yunis Al Khatib: «hanno sparato per uccidere. Nessun dubbio su questo. Colpire chi salva vite umane è un crimine che non può essere archiviato»

Un silenzio pesante riempiva ieri la sala seminari della sede della Mezzaluna Rossa Palestinese, a ridosso del campo profughi di Amari, all’ingresso di Ramallah. Decine di giornalisti, attivisti, medici e cittadini hanno atteso l’ingresso di Yunis Al Khatib, il capo della Mezzaluna Rossa. In prima fila c’era la delegazione della Croce Rossa Internazionale, in fondo alla sala dominavano le telecamere di tv locali, arabe e straniere. Le parole di Al Khatib, senza indugio, hanno pronunciato un’accusa netta. «I soccorritori e gli operatori umanitari uccisi il 23 marzo a Rafah sono stati colpiti (dai soldati israeliani) con l’intento deliberato di uccidere», ha proclamato con fermezza, spazzando via ipotesi di errori e incidenti. È stata un’esecuzione a tutti gli effetti, ha detto guardando la sala gremita.

Al Khatib ha riferito che i corpi delle vittime sono stati sottoposti ad autopsia. «Non possiamo rendere pubblici tutti i dettagli, ma posso dirvi che ogni persona è stata colpita nella parte superiore del corpo. Hanno sparato per uccidere. Nessun dubbio su questo». Quindi ha lanciato un appello per un’inchiesta internazionale. «Uccidere chi salva vite umane è un crimine che non può essere archiviato. Chiediamo un’inchiesta internazionale sulle circostanze di quest’omicidio deliberato di soccorritori e operatori umanitari», ha detto.

L’esercito israeliano, per giorni, ha provato a nascondere l’accaduto, arrivando persino a seppellire sotto una coltre di detriti e sabbia le 15 vittime — otto paramedici della Mezzaluna Rossa, sei membri della Protezione civile e un impiegato dell’Unrwa (ONU) — e ciò che restava di ambulanze e mezzi di soccorso. Il video trovato nel cellulare di una delle vittime e diffuso sabato dal New York Times ha cancellato in un attimo l’affermazione del portavoce militare sul fuoco aperto dai soldati contro «terroristi» a bordo di veicoli «non identificati». Ancora ieri ha dichiarato che sei degli uccisi erano «uomini di Hamas». Le immagini, però, mostrano le ambulanze in movimento con i lampeggianti accesi, i paramedici che scendono per controllare un veicolo di soccorso fermo e, pochi secondi dopo, le raffiche che uccidono tutti. I palestinesi reclamano indagini imparziali, giustizia e un intervento concreto per fermare l’offensiva israeliana a Gaza. L’indignazione globale è forte, ma, come accade quasi sempre, rischia di dissolversi nell’inerzia politica e diplomatica.

Ieri, al silenzio che ha accolto Al Khatib all’inizio della conferenza stampa, si è accompagnato quello nelle strade di Ramallah, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Le saracinesche dei negozi sono rimaste abbassate, le attività lavorative non essenziali si sono fermate, così come le scuole, per il giorno di sciopero generale a sostegno di Gaza e Cisgiordania proclamato da tutte le organizzazioni politiche palestinesi nell’ambito della «Campagna globale per fermare il genocidio». L’appello, firmato dalle Forze nazionali e islamiche, chiede la mobilitazione ovunque contro i massacri. «Vogliono liquidare la causa palestinese e sfollare il nostro popolo», si legge nel documento, che invoca l’unità nazionale contro l’occupazione israeliana. Hamas e Fatah, divisi da anni di scontri e rivalità, per un giorno hanno parlato con una sola voce.

Intanto, sulle colline a sud di Hebron, nel villaggio di Umm al-Khair, nella zona di Masafer Yatta, i coloni israeliani, scortati da militari, hanno posizionato altre roulotte accanto alle case degli abitanti palestinesi per costringerli ad andare via. «Sono arrivati dall’insediamento di Karmiel», ha spiegato l’attivista Osama Makhamreh. «Vogliono cacciarci, uno per uno», ha avvertito. La vita quotidiana dei palestinesi di Masafer Yatta, raccontata nel documentario No Other Land, premiato a inizio marzo con l’Oscar, è il simbolo della resistenza popolare che si oppone alla distruzione dei villaggi palestinesi in un’area che Israele ha proclamato unilateralmente zona di addestramento militare.

A Jenin, intanto, va avanti l’operazione militare israeliana cominciata 78 giorni fa, che ha ridotto in macerie buona parte del campo profughi della città, ucciso 36 persone, in gran parte civili, e ferito altre 18. Tra gli ultimi arrestati anche una madre e suo figlio adolescente. L’associazione Addameer riferisce che, dei 9.500 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, 350 sono minori e 21 donne. Oltre 3.000 si trovano in «detenzione amministrativa», un sistema che consente la carcerazione senza accuse formali né processo. Cinque ex detenuti, arrestati a Gaza e rilasciati di recente, hanno raccontato nei giorni scorsi alla BBC di torture, denudamenti, elettroshock, attacchi con cani, negazione delle cure mediche. Uno di loro, Mohammad Abu Tawileh, ha detto: «Mi hanno cosparso di una sostanza infiammabile, poi mi hanno dato fuoco».

08/04/2025

da Il Manifesto

Michele Giorgio

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