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Mentre a Gaza il massacro continua tra concentramento e sterminio

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238 uccisi ai centri «umanitari». L’Onu prevede che 470mila persone affronteranno la Catastrofe (il quinto e più grave livello di insicurezza alimentare) entro settembre. Significa una totale mancanza di accesso al cibo e ad altri bisogni primari. «Israele ha armato il cibo e bloccato gli aiuti salvavita. Retorica inquietante e disumanizzante degli alti funzionari del governo israeliano che ricorda il più grave dei crimini».

Fame e «zone di concentrazione»

«Forse aspettavate che suonassero le campane quando fosse avvenuta la deportazione di massa dei palestinesi, o che il portavoce dell’esercito israeliano rilasciasse una dichiarazione. Ma sta accadendo ora, in questo preciso istante. Non proprio sotto i nostri occhi – si può sempre distogliere lo sguardo – ma gli echi dei bombardamenti raggiungono migliaia di case in Israele». La dura reprimenda di Gadi Agazzi, professore di storia all’Università di Tel Aviv dal Manifesto. «Le esplosioni a Gaza sono un messaggio personale: l’espulsione di massa (il transfer, nel vocabolario politico israeliano) è in corso. Quando penserai che il momento sia arrivato, sarà troppo tardi. Si tratta di un processo accelerato e ci siamo già in mezzo».

Il cibo come arma

Come si svolge il trasferimento? Al momento, attraverso l’affamamento della popolazione, la distruzione delle infrastrutture essenziali, l’uso degli «aiuti umanitari» come strumento di guerra e i bombardamenti sistematici. Dunque il cibo come arma. «I massacri dei palestinesi che si sono precipitati verso il centro di distribuzione alimentare hanno giustamente scioccato molte persone. Tuttavia, eventi così drammatici rischiano di distogliere l’attenzione dall’essenziale: invece dei duecento centri di distribuzione alimentare previsti da organizzazioni internazionali esperte, Israele ne ha creati solo quattro. Quattro centri (anche ipotizzando che ce ne siano alcuni in più) per oltre due milioni di persone».

Si umiliano privandoli della loro dignità umana

«Anche la collocazione dei centri è molto significativa: uno si trova al centro della Striscia di Gaza e gli altri tre all’estremo sud, a ovest di Rafah. Non vi è alcuna corrispondenza tra la collocazione di questi centri e i bisogni della popolazione. La distribuzione del cibo non ha lo scopo di rispondere a necessità umanitarie, ma di perpetuare la carestia sistematica con altri mezzi». Obiettivo, favorire lo spostamento della popolazione verso sud, preferibilmente verso le cosiddette «zone di concentrazione». Già l’11 maggio, il quotidiano Ma’ariv riportava le dichiarazioni di Netanyahu durante una riunione riservata della commissione parlamentare per gli affari esteri e la sicurezza, secondo cui «l’erogazione degli aiuti sarebbe subordinata al fatto che i gazawi beneficiari non facciano ritorno nei luoghi da cui sono partiti per recarsi nei centri di distribuzione».

Distribuzione del cibo come mezzo di pressione

La logica dell’operazione «distribuzione degli aiuti» è stata confermata da Tammy Caner, direttrice del dipartimento Diritto e Sicurezza nazionale presso l’Istituto per gli studi di sicurezza nazionale di Tel Aviv. In altre parole, la distribuzione del cibo è un mezzo di pressione. Nell’intervista Caner ha confermato che, se si teme che la distribuzione secondo le modalità consuete consente ad Hamas di controllare gli approvvigionamenti, la soluzione ovvia è fornire cibo in abbondanza a tutti, per evitare la creazione di un monopolio che possa essere sfruttato contro la popolazione civile. «Il monopolio è proprio il punto centrale: Israele vuole averne il controllo esclusivo per usarlo contro la popolazione civile. La fame e la distribuzione subordinata a condizioni imposte dall’occupante sono due mezzi complementari per usare il cibo come arma».

Affamare-espellere

La riduzione sistematica alla fame dei civili da parte degli eserciti durante guerre totali condotte contro intere società è una pratica che ha una lunga storia. «Ma lo spostamento della popolazione tramite la creazione o lo sfruttamento di gravi penurie, così come l’uso degli approvvigionamenti come strumento di coercizione, non è una novità nemmeno in Israele. In uno studio non ancora pubblicato, ho scoperto che negli anni Cinquanta le autorità israeliane usarono la privazione di beni essenziali soprattutto come mezzo di pressione contro i palestinesi, sia rifugiati sia cittadini, e in misura inferiore – ma comunque significativa – contro gli ebrei (principalmente nuovi migranti mizrahim) che lo Stato cercava di trasformare in coloni nelle aree di insediamento».

Il cibo è un’arma

«La privazione di beni di prima necessità e la loro fornitura condizionata sono armi efficaci proprio perché non comportano né spari né bombardamenti. Il cibo è un’arma. La promessa di Netanyahu secondo cui la distribuzione di alimenti avrebbe creato un «consenso» favorevole al trasferimento è anche la spiegazione più plausibile del fatto che il ministro Bezalel Smotrich, ferreo oppositore della distribuzione di cibo ai palestinesi di Gaza, sia diventato improvvisamente un convinto sostenitore della misura». «Non è ancora chiaro se il programma di affamamento-trasferimento stia raggiungendo i suoi obiettivi. I rapporti provenienti da Gaza indicano che ai centri di distribuzione si recano solo i più forti, coloro che riescono a camminare per chilometri trasportando una razione alimentare per un’intera settimana; che il cibo, come prevedibile in condizioni di penuria estrema, finisce nelle mani di bande violente; e che Israele finora non è riuscito a convincere le centinaia di migliaia di palestinesi presenti nel nord della Striscia a compiere il lungo viaggio verso sud, né a impedirne il ritorno».

E siamo soltanto all’inizio

«Questo significa forse che il pericolo sta diminuendo o che il programma di trasferimento tramite la fame non funziona? In realtà, il programma è appena agli inizi. Se gli sarà permesso di proseguire, è probabile che la sofferenza finirà per avere effetto. Ancora più importante: in un contesto di trasferimento progressivo, privo di controllo pubblico, monitoraggio e pressione internazionale, la risposta prevedibile all’insuccesso delle misure coercitive sarà un’intensificazione della distruzione e delle uccisioni. Ci sono segnali che questo stia già avvenendo nel nord della Striscia di Gaza: secondo gli ultimi rapporti lo scopo della distruzione di tutte le infrastrutture vitali e del maggior numero possibile di edifici è costringere la popolazione a partire senza poter tornare».

Le conferme di Netanyahu

Una conferma esplicita di ciò si trova anche nelle dichiarazioni di Netanyahu, trapelate durante la stessa riunione: «Stiamo distruggendo sempre più case, non avranno dove tornare. La sola conseguenza logica sarà che i gazawi vorranno emigrare fuori dalla Striscia di Gaza. Il nostro problema principale è rappresentato dai paesi di accoglienza». «È importante: per procedere a una deportazione definitiva, non basta espellere le persone. Bisogna privarle di ogni possibilità di ritorno, come è avvenuto dopo il 1948. È proprio questo che rendono possibile i bombardamenti sistematici: distruggere il nord della Striscia di Gaza e altre sue parti fino a renderle del tutto inabitabili. Il grande progetto israelo-americano di trasferimento è ancora attuale».

Tre zone di concentrazione

«Da mesi, Israele è in trattative con alcuni ‘paesi di accoglienza’, una selezione di dittature. Tra i criteri considerati, la stabilità del regime e la legittimità internazionale, ma si tratta anche, molto probabilmente, di una questione di tariffa ’per persona’. Tuttavia, in assenza di ‘paesi di accoglienza’, dove si cerca attualmente di trasferire queste persone? Le autorità israeliane parlano di tre ‘zone di concentrazione’ all’interno dell’enclave palestinese».

  • Secondo una stima approssimativa, la zona attorno alla città di Gaza misura circa 50 km², quella dei campi nel centro circa 85 km², e quella di Mawasi, lungo la costa meridionale, circa otto km². Se si riuscisse a spingere e confinare la popolazione civile all’interno delle aree indicate, oltre due milioni di abitanti verrebbero ammassati su appena il 40% del territorio. La densità di popolazione salirebbe a 15mila abitanti per km², livello paragonabile a quello di isole ricche e sovraffollate come Macao e Singapore. Vivranno in un nuovo deserto, privo di infrastrutture, creato dall’esercito.

Veri e propri campi di concentramento

«Se si osserva la situazione non attraverso i documenti ufficiali dell’esercito, ma tramite i dati raccolti sul campo dalle organizzazioni umanitarie, emerge un quadro ancora più allarmante: l’espulsione continua verso aree ancora più ristrette. I portavoce ufficiali si premurano di chiamarle «zone di concentrazione». Ma le loro dimensioni ridotte, l’interdizione a uscirne, l’assenza di mezzi di sussistenza e infrastrutture consentono di definirle, senza ambiguità, veri e propri campi di concentramento. Questo processo era in atto da mesi, ma ora sta subendo una forte accelerazione. Il ritmo non è solo una questione temporale: l’accelerazione implica che il livello di crudeltà raggiunge proporzioni mai viste prima. I confini tra repressione ed espulsione, tra pulizia etnica ed eliminazione fisica, si assottigliano facilmente, quasi spontaneamente, quando le forze armate accelerano il processo e nulla le ostacola. In tempi di guerra, in assenza di controllo internazionale e nel caos dei combattimenti, una deportazione può diventare ancora più letale se trova ostacoli».

Dinamica omicida con pulsioni di sterminio

  • «Lo spostamento ripetuto da un luogo all’altro, in un territorio ristretto come Gaza, mira a sradicare le persone e a distruggere il tessuto delle loro vite; alcuni muoiono ‘da soli»’ e altri diventano un ’problema’ da risolvere con mezzi sempre più brutali; la distruzione sistematica genera una nuova realtà: aree inabitabili, che giustificano apparentemente un’espulsione per ‘ragioni umanitarie’; e il trasferimento forzato verso ‘zone di concentrazione’ crea condizioni di vita insopportabili. È anche del tutto plausibile che, di fronte al fallimento delle operazioni per rinchiudere le persone in enormi recinti, per espellerle dalla Striscia o per contenere l’estrema sofferenza generata dall’esercito stesso, la dinamica omicida si spinga a un livello ancora più alto. Il XX secolo ci offre diversi esempi spaventosi della rapida radicalizzazione degli eserciti nelle loro azioni contro le popolazioni civili, nel contesto di guerre spietate.
  • È questa dinamica che porta ai vertici del comando coloro che sono determinati a sterminare. Per passare da un’operazione di trasferimento fallita a una pulizia etnica sanguinosa, per arrivare a un disastro ancora più grave di quanto abbiamo visto finora, non serve un piano sofisticato. Basta il silenzio.

18/06/2025

da Remocontro

Ennio Remondino

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