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Medio Oriente. Le trattative di pace alla deriva. Mentre Parigi riconosce la Palestina

Medio Oriente. Le trattative di pace alla deriva. Mentre Parigi riconosce la Palestina

La risposta di Hamas alla bozza di intesa ha mandato su tutte le furie Witkoff. Washington e Tel Aviv richiamano i delegati da Doha. L'ira di Israele sulla Francia

Forse non è affondato. Almeno, non ancora. Il negoziato tra Israele e Hamas, però, di sicuro annaspa. Il verbo non è scelto a caso. Proprio uno yacht ormeggiato a Porto Cervo, in Sardegna, avrebbe dovuto essere la succursale parallela delle trattative di Doha. Là, nelle acque della Costa Smeralda, l’inviato Usa Steve Witkoff avrebbe dovuto discutere del cessate il fuoco e dei corridoi umanitari per Gaza con il ministro degli Affari strategici di Tel Aviv, Ron Derner, e un alto funzionario del Qatar. Forse lo stesso emiro, Mohammed bin Abdulrahman al Thani. La risposta di Hamas, però, ha scompaginato le carte, trasformando il vertice in un giallo. Witkoff è andato su tutte le furie. Questo testo rivela «l’egoismo» del gruppo armato, nonché – ha tuonato – «la mancanza di volontà di arrivare a una tregua». Da qui la decisione di richiamare in patria la delegazione di Washington. «È una vergogna», ha aggiunto. «Sebbene i mediatori abbiano compiuto grandi sforzi, Hamas non sembra agire in buona fede. Valuteremo ora opzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi e cercare di creare un ambiente più stabile per la popolazione di Gaza». Appena qualche ora prima si erano ritirati anche i rappresentanti israeliani, tornati a Tel Aviv «per consultazioni». «Se Hamas scambia la nostra disponibilità per debolezza, per un'opportunità di imporre termini di resa che metterebbero a rischio Israele, si sbaglia di grosso», ha detto Benjamin Netanyahu. In realtà, l’ultima versione presentata dai miliziani non si discosta dalle richieste di sempre del gruppo armato.

Prima fra tutte l’impegno degli israeliani a non ricominciare l’offensiva al termine dei 60 giorni di stop alle armi. Scottati dall’ultima tregua, interrotta a pochi giorni dalla scadenza da Netanyahu, i miliziani hanno introdotto una clausola esplicita per impedirlo. Questo il tasto dolente, fin dall’inizio dell’attuale tornata di trattative, come delle precedenti. Non tanto l’aumento a 2.200 – rispetto ai 1.325 del testo iniziale – dei detenuti palestinesi, tra cui duecento all’ergastolo, da scambiare per ciascuno dei 50 rapiti ancora in ostaggio: un rilancio – dicono fonti vicine alla mediazione – aggiunta all’ultimo. Ventitré dei sequestrati sono ritenuti ancora in vita. Per loro si è levato il grido disperato dei familiari riuniti nel Forum: «Siamo preoccupati. I negoziati si sono protratti per troppo tempo. Ogni giorno che passa mette a repentaglio le possibilità di recupero degli ostaggi». «Un’altra occasione persa per riportare indietro tutti i 50 ostaggi sarebbe imperdonabile. Sarebbe l’ennesimo fallimento morale, di sicurezza e diplomatico in una catena infinita di fallimenti», si legge nel comunicato.

I funzionari coinvolti nelle trattative di pace che si sono nuovamente arenate su Gaza

I funzionari coinvolti nelle trattative di pace che si sono nuovamente arenate su Gaza - Ansa

Il precipitare degli eventi e la durezza dell’inviato di Donald Trump hanno colto di sorpresa gli analisti. Le stesse fonti israeliane vicine ai colloqui sostengono che il negoziato non è finito. Anche se – per andare avanti – saranno necessarie «concessioni» e tempo. La mossa di Witkoff potrebbe, dunque, essere una maniera di alzare la posta, mettendo Hamas con le spalle al muro. Una tecnica usuale nell’approccio mercantilista con cui il tycoon affronta i dossier internazionali. In quest’ottica rientrerebbe anche la “provocazione” del dipartimento di Stato che ha chiesto sostegno aggiuntivo – oltre ai trenta milioni già stanziati – all’Amministrazione per la Gaza humanitarian foundation (Ghf), la controversa fondazione israelo-statunitense al cui sistema di consegna le agenzie umanitarie imputano la morte di oltre mille civili in meno di due mesi, colpiti nelle vicinanze delle strutture. Un nuovo finanziamento di 90 milioni sarebbe già pronto per essere erogato. La condanna del modello Ghf e il ritorno alla gestione da parte delle organizzazioni indipendenti era un’altra delle richieste contenute nella controproposta dei miliziani.

Prima dell’entrata a gamba tesa dell’inviato statunitense, fonti dello Stato ebraico erano apparsi possibilisti sulla bozza. Si parlava di «poche» controversie «risolvibili», visto «l’interesse» di Hamas di raggiungere l’intesa al netto degli intenti di massimizzare i risultati. Di fronte al precipitare della situazione, Gran Bretagna, Germania e Francia hanno annunciato oggi una chiamata di emergenza sulla Striscia. Il premier di Londra, Keith Starmer, ha definito «indifendibili» e «intollerabili» le sofferenze dei palestinesi. Mentre il presidente di Parigi Emmanuel Macron ha annunciato il riconoscimento della Palestina all’Assemblea generale dell’Onu di settembre. La settimana prossima, intanto, ci sarà una conferenza delle Nazioni Unite, guidata da Parigi e Riad con l’obiettivo di rilanciare la soluzione dei due Stati, ovvero la nascita dell’entità palestinese. Gli Usa, però, hanno fatto sapere che non parteciperanno. E il governo di Netanyahu – dipendente dall’ultradestra – sembra poco propensa a riaprire il discorso. A scanso di equivoci, il ministro per il Patrimonio culturale, Amihai Eliyahu, ha ribadito l’intenzione di «cancellare Gaza. Sarà tutta ebraica».

A scompaginare ulteriormente le carte, in serata è arrivato l'annuncio del presidente francese Emmanuel Macron: «Fedele al suo impegno storico per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ho deciso che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina. Ne farò l'annuncio solenne all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel prossimo mese di settembre», ha scritto il capo dello Stato francese su X e Instagram. Una decisione che ha mandato su tutte le furie il governo di Tel Aviv. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato di «condannare fermamente la decisione del presidente Macron di riconoscere uno Stato palestinese accanto a Tel Aviv in seguito al massacro del 7 ottobre». In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio, Netanyahu afferma che «premia il terrore e rischia di creare un altro rappresentante dell'Iran, proprio come è successo a Gaza. Uno stato palestinese in queste condizioni sarebbe un trampolino di lancio per annientare Israele, non per vivere in pace al suo fianco. Sia chiaro: i palestinesi non cercano uno Stato accanto a Israele; cercano uno Stato al posto di Israele», ha tuonato il premier.

«Fotocamera per sacco di farina»: la fame fa esplodere anche il baratto online

«Scambio la mia macchina fotografica con un sacco di farina». Non è stato facile per Bashir Fathi Kamel Abu Al-Shaar scrivere e pubblicare questo messaggio su Facebook il 16 luglio. «Che cosa vale uno scatto se non posso sfamare i miei figli? Se anche l’uomo che li tiene in braccio muore di inedia?», ha spiegato in un successivo post, quattro giorni fa, il giornalista free lance di 42 anni. «Da un anno e otto mesi faccio del mio meglio per mostrare al mondo la fame che divora il mio popolo. Ma sono anche parte di questa società e muoio di fame come chiunque altro. Ogni giorno mi trascino per le strade con gambe deboli e tremanti, documentando la sofferenza dei cittadini schiacciati dalla carestia. Loro non sanno che ho lasciato i miei figli affamati, proprio come loro». La sua drammatica scelta non è isolata. I gruppi social – impiegati a lungo per diffondere informazioni su combattimenti e ordini di evacuazione – sono ora inondati di proposte di scambio fra i pochi aver scampati alla guerra – e ai ripetuti sfollamenti – e il cibo.

 

La gente di Gaza coi sacchi di farina faticosamente conquistati dopo ore di fila

La gente di Gaza coi sacchi di farina faticosamente conquistati dopo ore di fila - .

Il baratto online è l’ultimo, disperato atto di resistenza vitale dei gazawi di fronte alla catastrofe umanitaria in atto. Si offre qualunque cosa: computer, pannolini, incerati. Inclusi servizi professionali. Naaman Imad, barbiere di Deir al-Balah, ha appeso un cartello alla tenda in cui risiede con la moglie e le sette figlie e in cui svolge la propria attività. «Cari clienti, buone notizie: ora è possibile avere un taglio di capelli in cambio di un chilo di farina». Una bustina di lievito ne vale almeno tre. Per le spose, poi, c’è una promozione: l’acconciatura si “compra” con un’insalata. La proposta più tragica è quella di Khaled Saleh che, su TikTok, ha scritto: «Sono disposto a donare il mio rene a qualsiasi malato in cambio di un sacco di farina per i miei figli».

Con tutte le banche chiuse, il sistema finanziario è bloccato. Per accedere ai risparmi conservati nei conti, le persone devono rivolgersi ai cambiavalute e pagare una commissione del 42 per cento, secondo la Camera di commercio dell’enclave. Ciò significa perdere quasi la metà del già pochissimo denaro disponibile. L’economia della Striscia è al collasso: il Pil è crollato di 83 punti percentuali rispetto all’ottobre 2023, il reddito medio è sotto i venti dollari al mese mentre i prezzi del cibo sono schizzati alle stelle. L’inflazione, sostiene l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), sfiora il 4mila per cento: le banconote sono, dunque, carta straccia. Ormai l’unica “moneta” di valore sono gli alimenti di base, a cominciare dalla farina, metro di qualunque transazione. La causa, denunciano le Nazioni Unite e almeno 115 organizzazioni umanitarie attive nell’enclave, è la carenza, a sua volta dovuta ai blocchi imposti da Israele. In media, al giorno – affermano – 28 convogli entrano dai valichi di Zikim e Kerem Shalom: meno di un ventesimo di quanto passava prima del conflitto. L’Unrwa – da tempo ai ferri corti con Tel Aviv che l’ha bandita dal proprio territorio – ha rivolto un appello a far transitare i suoi seimila camion di cibo e attrezzature mediche già pronti in Giordania e in Egitto. La quantità che effettivamente raggiunge i beneficiari, poi, è ancora più ridotta. La stessa agenzia israeliana incaricata di gestire la Striscia e la Cisgiordania (Cogat) – dopo aver detto di avere autorizzato il transito di 76 camion di soccorsi – ammette che ce ne sono 800 in attesa di essere scaricati dall’Onu e consegnati alla popolazione.

 

Sono soprattutto i bambini piccoli a patire la carestia che ha investito la Striscia. Questa immagine è tra le meno drammatiche che in queste ore vengono scattate a Gaza

Sono soprattutto i bambini piccoli a patire la carestia che ha investito la Striscia. Questa immagine è tra le meno drammatiche che in queste ore vengono scattate a Gaza - Ansa

Operazioni che, però, richiedono un permesso ulteriore da parte delle autorità di Tel Aviv. E – secondo le Nazioni Unite – questi vengono erogati con il contagocce. Dopo oltre due mesi di blocco totale e sedici settimane di escalation, lo spettro della fame si è materializzato in tutta la sua feroce concretezza. Le autorità sanitarie locali, controllate da Hamas, parlano di 45 vittime in quattro giorni. Più di un terzo di quelle fatte dalla malnutrizione – 113 – in ventidue mesi di offensiva. «La fame come le bombe», ha titolato in prima pagina l’Osservatore romano. In questo scenario, il baratto diviene una delle poche speranze di sopravvivere. Almeno fino a quando ci sarà qualcosa da dare. Chi non ha più nulla – donne soprattutto – è facile bersaglio delle reti della pornografia online: anonimi cercano i profili delle gazawi e chiedono foto oscene in cambio dell’invio regolare di denaro. Da quando, lo scorso aprile, su Facebook, Nada, 24enne del nord di Gaza, ha denunciato pubblicamente il fenomeno, altre l’hanno seguita. «Avevo un lavoro – ha scritto Nada –. Non avrei mai pensato di diventare questo». Difficile trovare una parola per descrivere la sua attuale condizione. «Cadaveri che camminano – ha sintetizzato l’Onu –. Questo sono i gazawi».

25/07/2025

da l'Avvenire

Lucia Capuzzi

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