L’ingresso dei fondi nell’economia pubblica e privata italiana impedisce una strategia di politiche industriali
Ormai da mesi la produzione industriale non cresce, l’occupazione ristagna, nonostante i dati “drogati” dal numero di occupati che ritarda il proprio pensionamento e i salari reali sono tra i più bassi d’Europa. Le cause di questi fenomeni sono molteplici, ma certo pesa l’assenza di politiche industriali. E quindi non si vedono prospettive di miglioramento delle condizioni di vita delle italiane e degli italiani.
Ma perché non ci sono più politiche industriali? La ragione di fondo, comune ai vari elementi che provo a mettere in fila, è costituita dalla accettazione fideistica del dogma neoliberale. Una fede che ha assegnato a una mal interpretata e perversa idea di mercato la soluzione di qualsiasi questione economica e sociale.
In primo luogo, le politiche industriali sono rese impossibili dalla profonda trasformazione della proprietà delle imprese italiane. In particolare di quelle medio grandi, ma non solo. Negli ultimi anni, la proprietà di tali imprese è finita nelle mani di fondi finanziari di duplice natura: i fondi che gestiscono il risparmio e i fondi hedge e private.
I fondi che costringono le imprese italiane a finanziarizzarsi
Per quanto riguarda i grandi fondi di risparmio gestito, a cominciare dalle Big Three americane per arrivare ai fondi europei, la loro presenza è ormai cruciale in tutto il sistema bancario e assicurativo italiano. E anche nelle imprese. Solo per citare alcuni esempi, li troviamo in Enel, Eni, A2a, Hera, Terna, San, Stellantis, Leonardo, Iveco, Brembo, Magneti Marelli, Fincantieri, Prysimian, Diasorin, Replay, Ovs, Amplifon, Ferrari, Cucinelli, Moncler.
La loro presenza in tali società tende a finanziarizzarle. Cioè a rendere necessario un rendimento immediato degli investimenti fatti, perché deve essere garantita una remunerazione ai risparmiatori che hanno messo i soldi nei fondi. Il che significa profitti rapidi, tradotti subito in dividendi azionari senza alcuna attenzione al reinvestimento.
Ci sono poi i fondi hedge e private che, sia pur con tratti diversi, comprano aziende, le “ristrutturano”, solitamente attraverso i licenziamenti e poi le rivendono ad un prezzo più alto rispetto a quello a cui le hanno comprate. È chiaro che con proprietà di questo tipo non è praticamente possibile alcuna politica industriale.
Le risorse per attuare politiche industriali
C’è poi il tema delle risorse per attuare politiche industriali. Di quelle private si è già detto: vengono dai fondi, o da banche legate ai fondi, che puntano a profitti e dividendi immediati, ottenuti con commissioni sulla vendita di prodotti finanziari e sugli alti tassi. Unicredit, solo per citare un caso, ha fatto sei miliardi di utili in meno di sei mesi, in larghissima parte tradotti in dividendi.
Per quel che riguarda le risorse pubbliche, pesa certamente la mancanza di visione complessiva, anche per una naturale ostilità verso la programmazione, dettata dalla sudditanza neoliberale. Così ogni anno alle aziende italiane sono erogati “sussidi” sotto varie forme, dal fisco agli incentivi, per quasi 60 miliardi di euro. Senza che questo migliori il livello dell’occupazione o dei salari, ma neppure la qualità e la produttività delle aziende beneficiate.
La mancanza di una banca pubblica
Sempre sul versante delle risorse pubbliche, non esiste più una banca pubblica, perché Cassa depositi e prestiti (Cdp) ragiona ormai come un fondo di investimento privato. E caratteri analoghi manifesta il Fondo italiano d’investimento (Fsi), creato in origine da Cdp e poi privatizzato con la presenza di rider d’assalto come Andrea Pignataro.
Lo stesso vale per Fondi Italiani per le infrastrutture (F2i). Un fondo destinato alle infrastrutture con la presenza delle Casse di previdenza (26%), delle Fondazioni bancarie (25%), di Intesa San Paolo e Unicredit (20%), dei grandi fondi internazionali di risparmio gestito (15%) e di Cdp. La sua azione è stata, di nuovo, simile a quella dei fondi privati: attenta al rendimento a brevissimo termine e solerte nello scegliere opere lautamente retribuite.
I danni della fede neoliberale alle politiche industriali
Una considerazione a parte meriterebbero il Pnrr e i fondi strutturali che, in entrambi i casi, hanno inseguito e inseguono progetti di opere dove il principale e pressoché unico effetto economico è la spinta al settore dell’edilizia. Certo già drogato dai superbonus.
Infine c’è un terzo aspetto che contribuisce a rendere impossibili le politiche industriali. È ancora legato alla fede neoliberale ed è costituito dal perseguimento di un modello economico votato alle esportazioni, rispetto al quale il vero dato di competitività è stato il brutale contenimento del costo del lavoro. A cominciare dalle delocalizzazioni e dalla proliferazione di contratti precari e sottopagati.
Puntare sul mercato estero consente infatti di non preoccuparsi del mercato interno e quindi del potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici. Un modello impoverente, oltretutto costretto ora a fare i conti con i dazi.
28/07/2025
da Valori