L’attacco di Israele all’Iran scoperchia il vaso di Pandora della finanza. E avrà gravi conseguenze per l’economia degli Stati Uniti
L’attacco di Israele all’Iran potrebbe generare conseguenze impreviste. Lo stretto di Hormuz è un transito di appena 21 migliaia nautiche e vede passare ogni mese circa 3.000 navi che trasportano 500 milioni di barili di petrolio. In sintesi ben oltre il 30% dell’intero petrolio mondiale. L’Iran potrebbe facilmente bloccarlo con conseguenze enormi sul prezzo del greggio. Questa situazione costituisce una formidabile occasione speculativa per chi opera nel settore petrolifero. Proviamo a vedere come.
Lo stretto di Hormuz e l’effetto sui prezzi del petrolio e dei mercati finanziari
Anche solo la minaccia di un blocco di Hormuz potrebbe scatenare, come in parte sta avvenendo, un’impennata dei prezzi dei futures sul petrolio. In pratica sulle scommesse al rialzo dei prezzi stessi. Un simile rischio di blocco potrebbe generare poi una altrettanto marcata lievitazione degli Etf (exchange-traded fund) sul petrolio. I più importanti dei quali sono quelli legati a United States Oil Fund e a United States Brent Oil Fund.
Questi strumenti vengono scambiati su due listini statunitensi, il Nymex di New York e la piattaforma di Atlanta. Inoltre è possibile fare soldi con gli acquisti di azioni delle società petrolifere. Il dato interessante è costituito dal fatto che dietro i future, gli Etf, lo United States Oil Fund e il United States Brent Oil Fund, il Nymex, la piattaforma di Atlanta e le principali società produttrici di petrolio, ci sono sempre i grandi fondi e le grandi banche degli Stati Uniti. Da BlackRock a Jp Morgan fino a Goldman Sachs.
Le ricadute dell’attacco sul dollaro e sul debito statunitense
In questo senso sembra profilarsi un vero e proprio corto circuito: l’attacco di Israele all’Iran mette in difficoltà il debito federale americano e il dollaro. Espressione di una realtà politica che subisce la violenta aggressività israeliana, mentre favorisce le Big Three, il monopolio finanziario in aperto contrasto con Donald Trump.
Dopo l’attacco a Teheran, il dollaro infatti sta continuando a perdere terreno e prosegue la vendita dei titoli di Stato americani, costretti a pagare rendimenti crescenti. In estrema sintesi, la pericolante tenuta dei conti di un paese che ha un debito di 36 mila miliardi di dollari, paga 1200 miliardi di interessi e ha una posizione finanziaria netta negativa di 24 mila miliardi, sta deteriorandosi rapidamente in seguito all’apertura del fronte di guerra iraniano.
Inflazione in risalita: gli effetti della guerra sui mercati
E c’è un altro dato che non giova alla presidenza statunitense e piace alle Big Three. Questo è costituito dal rischio, assai probabile, di ripresa dell’inflazione, a cui seguirebbe un rialzo dei tassi d’interesse. Odiato da Trump e funzionale al monopolio della liquidità detenuto dalle Big Three e dalle grandi banche statunitense.
A questa notazione vorrei aggiungerne un’altra di carattere generale. Come accennato pare probabile che, al di là delle narrazioni dominanti, l’inflazione continuerà a salire secondo quanto dimostra la quota crescente di oro acquistata dalle Banche centrali come strumento di riserva e di difesa dal rischio di deprezzamento.
Non è un caso che il dollaro sia crollato al 45% del totale delle riserve valutarie globali. Era il 55% nel 2022. Mentre l’oro è salito ad oltre il 20%, superando l’euro crollato dal 20% del 2022 al 15%. Il mondo ha paura dell’inflazione e non si fida più del dollaro. E tanto meno dell’euro, valuta di un Continente che vuole la guerra come strumento di ripresa economica.
L’instabilità finanziaria scatenata dall’attacco all’Iran
Alla luce di ciò, tuttavia, emerge un problema anche per le Big Three che, sia pur beneficiando di una possibile bolla petrolifera, devono fare i conti con un eccesso di instabilità, generato da una guerra di lunga durata. E soprattutto con una eventuale corsa folle dell’oro. I cui prezzi rischiano di diventare l’elemento in grado di attrarre tutta la liquidità circolante, mettendo in difficoltà persino le liquidissime Big Three, per le quali la presenza di un ventaglio di titoli forti è decisamente funzionale.
Peraltro, se i rendimenti dei titoli di Stato americani salgono e se l’oro è così attrattivo, per le società – partecipate dalle Big Three – diventa estremamente oneroso collocare le proprie obbligazioni. Con effetti tutt’altro che banali sui loro conti. L’attacco di Israele all’Iran sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora, anche in termini finanziari.
17/06/2025
da Valori