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L’altro dazio, il dollaro. Così l’Europa paga due volte

L’altro dazio, il dollaro. Così l’Europa paga due volte

Guerra dei dazi. L’euro si rafforza. Ma non è una buona notizia, perché al danno dei dazi si aggiunge la svalutazione del dollaro (sommando dazi e cambio sfavorevole, l’onere totale per le merci europee arriva al 28%)

Uno scambio «reciproco», dicono. Ma c’è ben poco di simmetrico nell’accordo tra Stati Uniti e Unione europea che introduce un dazio del 15% sulle merci europee esportate oltre Atlantico (50% su acciaio e alluminio). Un’altra prova, semmai, del rapporto gerarchico che definisce le relazioni transatlantiche da decenni.  Washington incassa, Bruxelles si accoda e subisce. Molto semplicemente. La Commissione europea, in nome di una de-escalation che somiglia molto di più ad una capitolazione, ha scelto infatti di non reagire. Non ci saranno per ora contromisure sui 93 miliardi di euro di beni americani finiti nel mirino dopo le ultime mosse del Dipartimento al commercio. Nessuna stretta sui servizi offerti dalle big tech statunitensi in Europa, nessuna tassa digitale.

Nel frattempo, l’euro si rafforza. Ma non è una buona notizia, perché al danno dei dazi si aggiunge la svalutazione del dollaro (sommando dazi e cambio sfavorevole, l’onere totale per le merci europee arriva al 28%). Da quando Trump è tornato alla Casa Bianca, il dollaro ha perso infatti il 13% sulla divisa europea. Un indebolimento che riflette, da un lato, la pressione del tycoon sulla Fed — accusata di non abbassare abbastanza i tassi — e dall’altro il clima d’incertezza che proprio le guerre commerciali scatenate da Washington contribuiscono ad alimentare.

Con un paradosso: l’Europa che paga il prezzo di un dollaro debole è la stessa che ha contribuito a questo indebolimento, riducendo nell’ultimo periodo la sua esposizione verso i titoli di Stato americani (a maggio registrati 100 miliardi di acquisti netti di titoli europei, grazie ai flussi in uscita dal mercato statunitense). Che rimane però elevata. Solo cinque Stati (Germania, Francia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo) custodiscono 1.558 miliardi di dollari, che diventano 2.471 miliardi includendo Regno Unito e Norvegia. Una cifra tripla rispetto alla Cina, e doppia rispetto al Giappone. Numeri che esprimono un potenziale di deterrenza politica e finanziaria enorme. Ma non per l’Europa, che in questa partita truccata – in cui entrano anche gas e armi – i dazi accetta di pagarli due volte, con le tariffe e con la moneta rivalutata.

Ma c’è un effetto collaterale: un dollaro che si deprezza mina la fiducia internazionale nella moneta americana. E in effetti, qualcosa scricchiola. Il dollaro resta ancora oggi la principale valuta di riserva globale, con circa il 58% delle riserve mondiali detenute in biglietti verdi, ma è in costante calo rispetto al 71% dei primi anni Duemila. La corsa all’oro — tornato sopra i 2.800 dollari l’oncia — segnala, d’altro canto, un bisogno crescente di beni rifugio alternativi.

La grande contraddizione della Trumponomics è tutta qui: da un lato The Donald vuole un dollaro forte, egemone, in grado di dettare le regole del gioco globale (per questo usa i dazi come arma di ricatto, e investe nelle stablecoin, criptovalute ancorate al biglietto verde); dall’altro, l’America ha bisogno di un dollaro debole per contenere il disavanzo commerciale. Dazi e svalutazione: due strumenti per lo stesso fine, ma che si contraddicono reciprocamente. Non solo. C’è da giurare che un prezzo salato lo pagheranno anche i consumatori americani, che vedranno aumentare inevitabilmente il costo dei beni importati, di prima necessità, ma anche le imprese, che dovranno fare i conti con beni intermedi – componentistica, semilavorati – più costosi.

Trump, evidentemente, gioca una partita a corto respiro, nella logica del breve termine. Keynesianamente si disinteressa del lungo periodo, quando, come scrisse John Maynard, «saremo tutti morti». E soprattutto, si rifiuta di guardare in faccia la realtà di un paese soggiogato dall’iperfinanziarizzazione dell’economia, il vero male oscuro dell’America. Si rifiuta perché lui e la sua cerchia del problema sono parte integrante, con i loro stratosferici e inconfessabili interessi.

29/07/2025

da Il Manifesto

Luigi Pandolfi

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