Scenari cupi. L’hanno voluto gli stessi domatori, Stati uniti in prima fila, insieme a una leadership europea disinformata, ininfluente e ormai piegata alle destre sovraniste e populiste
La tigre della guerra è uscita dalla gabbia e farla rientrare sarà assai difficile. Peraltro sono i domatori stessi, in prima fila gli Stati uniti, che l’hanno scatenata con il voluto fallimento diplomatico di Trump. Lui e ora anche gli europei, con una leadership disinformata e ininfluente e il contributo delle destre sovraniste-populiste. Che hanno accettato di fatto l’agenda bellica di Netanyahu.
Un’altra picconata al diritto internazionale e alla diplomazia, di cui un tempo l’Occidente si faceva portabandiera e che invece ha completamente abbandonato ogni barlume umanitario e di legalità come dimostra la tragedia disumana di Gaza: la cosiddetta “Europa dei valori” ha accettato il genocidio palestinese e ora, mentre parla di de-escalation, approva l’attacco israeliano all’Iran degli ayatollah che serve a tenere politicamente in piedi Netanyahu e a distrarre il mondo dalla tragedia inarrestabile della Striscia. Primo risultato negativo la guerra ha affossato per il momento la conferenza sulla Palestina e i due stati in programma in settimana a New York.
STIAMO AVALLANDO una logica bellica e di sterminio che non porterà a un nuovo ordine in Medio Oriente ma a un’altra stagione di destabilizzazione, lo stesso caos che abbiamo provocato per quasi due decenni nella regione con la guerra in Iraq nel 2003, scatenata sulla scorta di armi di distruzione di massa mai trovate. Il caos ha un solo scopo: fare di Israele, come vogliono gli Stati uniti non da oggi, l’unica superpotenza della regione, per annichilire un mondo arabo già inerte e inerme, frantumando, se possibile, pure l’Iran e spartire la Siria tenendo a bada la Turchia di Erdogan, membro riluttante della Nato.
Qui non siamo spettatori ma volenterosi partecipanti di questo disgraziato progetto di distruggere le nazioni del Medio Oriente. Un piano che naturalmente può sfuggire di mano, come dimostra il recente passato.
Con il contro-attacco dell’Iran sulle città israeliane gli Usa sono già scesi in campo a difesa di Israele mobilitando navi e aerei non solo a salvaguardia delle basi nel Golfo ma appoggiando le operazioni di Tel Aviv. Per lo stesso motivo si è mosso sul piede di guerra anche Macron e verrà seguito, con modi e sfumature diverse, dagli altri Paesi europei: Teheran minaccia di metterli nel mirino della rappresaglia. L’Italia rischia perché ha un forte contingente militare nell’Unifil in Libano, dove Israele ha già mobilitato i riservisti come ha fatto in Siria. Poi c’è il Mar Rosso dove le navi da guerra italiane nello Stretto di Bab el Mandeb affrontano insieme ad altre nazioni, Israele compreso, gli Houti dello Yemen, alleati di Teheran e già entrati in azione contro lo stato ebraico.
LA GUERRA ha anche evidentemente un riscontro economico: dal Golfo, dove l’Iran minaccia di chiudere Hormuz, passa oltre il 20% dei rifornimenti energetici mondiali e dal Mar Rosso e dal canale di Suez oltre il 60-70% dei traffici navali nel Mediterraneo. Non solo si impennano le quotazioni del petrolio e del gas ma anche le azioni delle industrie belliche soprattutto americane, che, come si è vantato Trump, riforniscono gli israeliani con armamenti sofisticati. È questo un indicatore che la guerra è destinata a continuare ma anche un segnale politico che il complesso militar-industriale israelo-americano è una realtà dominante pure per noi che vi partecipiamo con fatturati e utili.
SULL’AGENDA di Netanyahu, che di fatto gli Usa e gli europei appoggiano per contrastare l’arricchimento dell’uranio iraniano, dovremmo soffermarci. Il premier vuole la distruzione dei siti nucleari e la decapitazione della leadership di Teheran. Ha intrapreso tutti e due gli obiettivi dando una deriva esistenziale alla guerra: se ne esce solo con la vittoria di Israele. La distruzione dei siti nucleari però non è completa, alcuni di questi sono protetti da gallerie scavate in profondità. Servono bombe potenti che solo in parte gli israeliani posseggono: quindi è necessario il supporto degli americani e Trump ha già minacciato, se non riprende il negoziato con la resa di Teheran, una distruzione totale.
QUANTO ALLA DECAPITAZIONE del regime, Israele ha già colpito la prima linea militare e fa capire che è pronto a colpire anche quella politica-religiosa, cioè Khamenei, l’avvertimento è venuto prendendo come bersaglio la sua residenza di Teheran, Shamkani, consigliere storico della Guida Suprema ma anche Qom, il vaticano dello sciismo. Netanyahu ha in mano qualche carta importante perché attraverso infiltrati ad alto livello è riuscito a colpire i capi dei pasdaran a casa loro. Un cambio di regime con un sollevamento della popolazione, come vorrebbe il premier ebraico con il suo appello alla popolazione iraniana, però non è probabile: gli iraniani temono il regime ma forse temono ancora di più di fare la fine dell’Iraq e precipitare nel caos e nell’anarchia.
GLI STESSI STATI ARABI e del Golfo, sauditi in testa, contrari alla guerra, hanno ricevuto un messaggio inequivocabile: o accettano la supremazia israeliana o potrebbero finire a loro volta nel mirino, non è certo un viatico al famoso Patto di Abramo sponsorizzato da Trump.
E veniamo alle vie di uscita diplomatiche e al ruolo di Russia e Cina, i due Paesi più vicini a Teheran. Il mediatore Oman non è riuscito a riportare al tavolo negoziale americani e iraniani, Trump rivendica che la guerra di Israele costringerà Teheran a trattare.
Ma su cosa? Finora ha offerto non un accordo ma una resa: blocco del programma nucleare senza nulla in cambio sul versante dell’annullamento o dell’alleggerimento delle sanzioni. Più che un negoziatore è apparso una sorta di postino di Netanyahu. Sarà capace di uscire da questo ruolo umiliante? Lo deve fare, altrimenti perde credibilità fuori e dentro gli Usa. Ma ogni logica politica applicata a questo presidente è preda del suo comportamento erratico e imprevedibile.
QUANTO ALLA REAZIONE di Putin nei confronti dell’attacco all’alleato che lo rifornisce di droni contro l’Ucraina, induce a una riflessione paradossale. È l’unico che ha parlato sia con Netanyahu che con il presidente iraniano Pezeshkian. Quasi surreale: Putin e Netanyahu, due ricercati della corte penale internazionale per crimini di guerra, che discutono di mediazioni diplomatiche. La realtà è che Putin ma anche i cinesi, che si sono opposti alle risoluzioni dell’Aiea, non sembrano disposti a rischiare nulla di concreto per difendere gli ayatollah. E quanto al G-7 che comincia oggi in Canada parte già in salita: forse non ci sarà neppure un comunicato congiunto finale.
Una sola cosa accomuna Netanyahu e Khamenei: la loro strenua volontà di restare al potere, al costo di guerre, conflitti, massacri. Una volontà di sopravvivere che come avrebbe detto un filosofo due secoli fa si traduce in una pulsione cieca, irrazionale e insaziabile che è all’origine di ogni sofferenza. I palestinesi sterminati da Netanyahu ne sanno qualcosa.
15/06/2025
da Il Manifesto