Masafer Yatta. Parla Hamdan Ballal, residente a Susiya, premiato con l'Oscar per il film No Other Land. «Il mio villaggio ha ricevuto 43 ordini di demolizione. Cosa aspettarsi se non un atto di forza definitivo?»
«I coloni israeliani vogliono queste colline, questi terreni per i pascoli, questa luce, questi tramonti, perché sono meravigliosi. Susiya è isolata, siamo lontani dai centri abitati più grandi, eppure per me resta il posto più bello del mondo», ci dice Mohammad mentre, nella sua abitazione fatta di legno e lamiere, ci offre un caffè. Aspettiamo di intervistare Hamdan Ballal, vincitore di un premio Oscar assieme agli altri tre registi (il palestinese Basel Adra e gli israeliani Yuval Abraham e Rachel Szor) del documentario No Other Land. Lo scorso 25 marzo, Ballal è stato aggredito e ferito da coloni israeliani entrati nella sua abitazione a Susiya, poi è stato arrestato senza motivo dai soldati e liberato solo il giorno dopo. Mohammad, intanto, ci racconta di Susiya, della sua storia antica e dell’aumento delle scorribande dei coloni che da anni tentano di mettere fine all’esistenza del villaggio.
Vicende che riguardano tutta quell’area, Masafer Yatta, e le colline a sud di Hebron che Israele ha proclamato «zona di addestramento militare, 918». La popolazione palestinese è a rischio di espulsione. Intorno regna il silenzio, rotto solo da un cane che abbaia e dal vento che soffia tra i teli stesi sopra le abitazioni per proteggerle dalla pioggia e dal freddo. Nel frattempo, arriva Hamdan Ballal. Appare un po’ stanco, ma dopo tre settimane non mostra più sul viso e sulla testa i segni dell’attacco subito. «Sto meglio, mi sono ripreso e sono tornato al lavoro», dice. «Purtroppo, non è così per i miei bambini», aggiunge, «quel momento è stato durissimo per loro. Hanno visto il padre aggredito e poi arrestato senza alcun motivo dai soldati. Voglio che dimentichino, o almeno che sentano che le cose possono andare meglio».
Le cose però non vanno meglio, ogni giorno apprendiamo di nuovi raid a Um al Kheir, Jinba e altri villaggi di Masafer Yatta. Poche ore fa è stato ferito un altro palestinese.
Sì, è vero. Dopo che mi hanno attaccato, la situazione è addirittura peggiorata. I coloni sono entrati nel villaggio di Jinba e cinque abitanti sono stati feriti. Non basta. L’esercito è tornato di notte e ha distrutto tutto: la scuola, le case, le cucine, tutto. Qui a Susiya la violenza dei coloni non si limita ad attacchi alle persone o alle case. Va oltre. Da un po’ di tempo usano come arma persino le loro pecore: le portano a pascolare qui per distruggere le nostre coltivazioni.
Perché tanta pressione dei coloni sul tuo villaggio?
Dicono che è un luogo storico, biblico. E per questo vogliono cacciarci via. E usano varie strategie. Mentre ero in ospedale, ad esempio, mio nipote mi ha chiamato per dirmi che i coloni stavano facendo pascolare le loro pecore proprio fuori casa mia. Non importa se sei ferito o stai morendo, loro vanno avanti.
Pensi che l’aggressione che hai subito fosse collegata al premio Oscar?
Non ho una risposta certa, ad averla sono solo i miei aggressori. Tendo però a credere al collegamento con l’Oscar, perché mi colpivano alla testa, intenzionalmente. Come se volessero dirmi che pensare, ragionare, produrre informazioni, cultura e film non serviranno a mutare la mia condizione di occupato. Qui comandiamo noi, hanno creduto di affermare. Non ne sono sicuro, però è questa la sensazione. Allo stesso tempo, quanto mi è accaduto rientra nella strategia complessiva volta a cacciare tutti i palestinesi dalle colline a sud di Hebron. Il loro piano ha subito un’accelerazione. Prima, ad esempio, i coloni provenivano solo dalle zone vicine, ora sempre più spesso arrivano anche da altre parti della Cisgiordania. C’è un crescente coordinamento tra quelli nel nord e quelli del sud. Si organizzano per attaccare insieme. Ci sono persone mai viste prima che partecipano agli attacchi.
A tuo avviso, il piano di espulsione generale della gente di Susiya e di tutta Masafer Yatta è sul punto di scattare?
Susiya ha ricevuto 43 ordini di demolizione. Oltre a questo, cosa possiamo aspettarci se non un atto di forza ampio e definitivo? I segnali sono evidenti e inquietanti. Ogni momento c’è un nuovo attacco. A Masafer Yatta tutti hanno paura. Quando mandano i bambini a scuola, hanno paura che i coloni facciano loro del male. I pastori, quando escono con le pecore, hanno paura per le loro famiglie a casa. Conosciamo l’obiettivo di Israele, ma non possiamo immaginare quale sarà il prossimo metodo che userà contro di noi. Siamo indifesi, anche se gli attivisti internazionali e locali fanno del loro meglio per aiutarci.
A questo proposito, dopo che hai vinto il premio, alcuni palestinesi ti hanno criticato per aver realizzato No Other Land con degli israeliani, attuando una “normalizzazione tra occupato e occupante”.
Rispondo che sono cresciuto vedendo attivisti israeliani venire qui da più di vent’anni per sostenere i palestinesi. Molti di loro sono stati attaccati, imprigionati, alcuni sono stati feriti. Queste persone non sono dei normalizzatori, e con il tempo si è creato con loro un rapporto di fiducia. Susiya è stato demolito tante volte, e chi c’era a ricostruirlo per permetterci di rimanere nella nostra terra? Gli attivisti israeliani più sinceri, quelli che credono che ciò che stiamo affrontando sia una pulizia etnica, l’apartheid. Sono pochissimi, è vero, ma lottano assieme a noi per la sopravvivenza di Susiya e di tutta Masafer Yatta.
18/04/2025
Da il Manifesto