da Pressenza
E’ bastata la proposta di candidatura della filosofa Donatella Di Cesare nelle liste del MoVimento 5 Stelle in sostegno a Pasquale Tridico per il centrosinistra alle Regionali in Calabria, per far esplodere l’ennesimo caso mediatico.
Fratelli d’Italia è partito all’attacco della professoressa di Filosofia teoretica per un vecchio tweet dopo la morte di Barbara Balzerani, storica ed irriducibile militante delle Brigate Rosse. “La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna” – aveva scritto in quell’occasione Di Cesare, prima di rimuovere il post a causa delle roventi polemiche che si erano scatenate. In quell’occasione la professoressa si era detta “sconcertata” per gli attacchi ricevuti, ricordando di essere stata sempre “lontana da ogni forma di violenza”.
Quella frase dedicata a Balzerani, però, adesso viene usata da Fdi per attaccare l’ipotesi di candidatura della filosofa con il Movimento 5 stelle, nelle liste a sostegno di Pasquale Tridico. “Ha esaltato le Brigate Rosse, sinistra ritira la sua candidatura”, si legge in una card diffusa sui social dagli account del partito di Meloni. “Ritengo che sia impensabile candidare chi ricorda con malinconia quella che fu non una rivoluzione, come scrisse la stessa Di Cesare, ma una delle stagioni più drammatiche della storia repubblicana. Ne va del rispetto delle vittime del terrorismo e delle loro famiglie. Le istituzioni democratiche si fondano sulla memoria condivisa e sul rispetto delle vittime di quelle stagioni di odio e di violenza, oltre che sui valori della libertà e della democrazia in cui è evidente che le Br non si sono mai riconosciute. Ogni scelta politica dovrebbe riflettere tali valori con responsabilità e senso delle istituzioni, e non ammiccare agli estremismi per racimolare consenso”, attacca pure Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia e coordinatrice regionale in Calabria.
Si tratta di pura strumentalizzazione di una questione molto più amplia che sottolinea l’ignoranza di chi fa di tutto per riscrivere la sua storia a piacimento e politicizzare il dibattito.
I temi legati agli anni di piombo, allo stragismo neofascista coperto dallo Stato e alla lotta armata di estrema sinistra sono ancora un dibattito su argomenti vulnerabili. Non è un caso che ancora oggi quegli anni siano ancora in grado di far discutere colpendo in diverso modo sensibilità e ferite molte diverse. Non si può negare però che ancora oggi – nonostante le stragi di Stato con manovalanza neofascista, le responsabilità di Gladio, della Rete Stay Behind, della NATO e di poteri occulti – a fare scalpore mediatico sia ancora solamente la lotta armata dell’estrema sinistra. Questo evidenzia un evidente disequilibrio nel dibattito attuale che vira sempre di più sulle informazioni parziali e “di pancia” rispetto invece ai fatti storici.
Condannando moralmente ogni forma di violenza politica, non si può negare che, rispettivamente, sul piano storico il terrorismo neofascista e la lotta armata dell’estrema sinistra abbiano rivestito due ruoli completamente diversi. Gli storici, sugli “anni di piombo” in Italia, oggi sono concordi nell’affermare che ci fu una sostanziale differenza tra il terrorismo dell’estrema destra, che si concretizzò nell’azione distruttiva volta a terrorizzare il maggior numero di persone indifese, e la lunga stagione della lotta armata in Italia che nacque dopo i primi sentori evidenti della strategia della tensione dalla fine degli anni Sessanta, non colpendo mai la gente comune, ma bensì figure di potere politico, economico e militare. La lotta armata dell’estrema sinistra in Italia non commise stragi, ma omicidi o sequestri politici mirati a persone specifiche (vedasi sequestri Moro e Dozier), mentre il terrorismo nero puntava su azioni – spesso eterodirette – con un impatto di massa. Questa è un’analisi esclusivamente sul piano storico e politico che non giustifica nulla di ciò che è stato, ma analizza storicamente i fatti per quello che sono. Quindi chi parla impropriamente di “terrorismo rosso” come fenomeno da rilegare al più grande ambito dei fenomeni delinquenziali, sta commettendo un grave errore storico-analitico che non aiuta per nulla il raggiungimento della verità storica, ma rischia di banalizzare ulteriormente contesti più complicati.
Inoltre, la lotta armata di sinistra si distingue dal terrorismo neofascista di quegli anni per un semplice risultato: il terrorismo che ha messo le bombe nelle banche, sui treni e nelle piazze è rimasto impunito. Pensiamo a Francesca Mambro, militante dei NAR, che è stata condannata complessivamente a nove ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione per essere stata manovalanza nella Strage di Bologna (85 morti), la sua pena si è estinta dal 2013, dopo essere stata messa in libertà condizionale nel 2008. Molti altri suoi camerati sono rimasti completamente impuniti come i neofascisti che sono stati artefici della Strage di Piazza Loggia a Brescia: 50 anni dalla strage e ancora non esiste un colpevole ufficiale, sebbene ne esistano molti ufficiosi.
Ai responsabili delle stragi di Stato è stata garantita l’impunità mentre tutti gli aderenti alla lotta armata di sinistra sono stati identificati, processati e condannati, compresi anche coloro che rifugiandosi in Francia hanno usufruito per anni della Dottrina Mitterrand. Non solo, con la scusante della lotta armata furono rinchiusi più di 5.000 militanti di sinistra che divennero prigionieri politici in Italia: persone che con la lotta armata non c’entravano nulla, ma che vennero spacciati come tali e definiti come delinquenti qualsiasi.
Oggi il dibattito tra storici e intellettuali è ancora aperto su cosa sono stati gli “anni di piombo” – “l’assolto al cielo” come venne definito – inseriti in un contesto storico-politico caratterizzato da una certa radicalità delle masse di cui possiamo chiaramente vedere la decadenza con l’inizio degli anni del riflusso negli anni Ottanta e Novanta, e terminando bruscamente dopo la repressione delle proteste di massa al G8 di Genova nel 2001 (che Amnesty International definì “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale” e una “violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea”).
Molti storici sono restii a definire guerra civile gli scontri che ci furono in Italia dopo l’8 settembre del 1943, mentre molti altri concordano nel definire gli “anni di piombo” come una piccola guerra civile all’interno di una piccola “guerra guerreggiata” che ha prodotto uno scontro fisiologico tra i gruppi della forza armata e l’esercito ufficiale. Un guerra civile dal punto di vista del numero dei caduti da ambo le parti e se si considerano le migliaia di militanti di sinistra che venivano condannati tout court per banda armata.
Quando Wanda Ferro afferma che le “le Br non si sono mai riconosciute” nelle “istituzioni democratiche” che “sul rispetto delle vittime di quelle stagioni di odio e di violenza, oltre che sui valori della libertà e della democrazia”, si dimentica (o forse non sa) che furono le stesse “istituzioni democratiche” a mettere in campo la tortura di Stato contro i brigatisti nelle carceri che vide all’opera la squadra del Professor De Tormentis dopo il sequestro del generale americano James Lee Dozier. La squadra di De Tormentis era esperta dell’interrogatorio duro e del waterboarding in cui l’interrogato veniva legato a un tavolo con spalle e testa sporgenti e poi, con un imbuto o un tubo, gli venivano fatte ingurgitare grandi quantità di acqua salata.
Molte furono le strategie di tortura usate dalle “istituzioni democratiche” sui brigatisti a tal punto da scandalizzare grandi filosofi come Foucault e Deleuze che si domandarono come fosse possibile che uno Stato potesse definirsi “democratico” mantenendo al suo interno prassi fasciste.
Non si tratta dunque di invenzioni, ma di torture molto ben documentate nel libro “Le torture affiorate” edito dalla casa Editrice Sensibili alle Foglie. A testimoniare questi fatti, anni dopo, fu proprio Salvatore Genova, poliziotto appartenente alle squadre di torturatori in una storica intervista a L’Espresso.
https://www.ilpost.it/2022/07/07/de-tormentis-rapimento-dozier/
Sarebbe interessante dunque capire a quali valori della libertà, della democrazia, della responsabilità e del senso delle istituzioni facciano riferimento quelli che criticano la De Cesare per un tweet, montando una storia ad arte per poter delegittimare una persona più valevole di loro sia culturalmente sia intellettualmente.
Forse sono gli stessi che parlano strumentalmente di “terrorismo rosso” senza conoscere il tema, non sapendo che c’è ancora molto dibattito su questo capitolo della storia proprio perchè non è mai stato affrontato seriamente in Italia questo argomento. Oggi c’è chi associa l’esperienza della lotta armata di estrema sinistra ad uno dei tanti fenomeno delinquenziali e criminali del momento; chi, soprattutto a sinistra, ha accusato movimenti come le Brigate Rosse e Prima Linea di sostituismo, ovvero di arrogarsi il diritto di lottare per la classe operaia sostituendosi ad essa senza un minimo di territorialità dando l’illusione che fossero rappresentanti delle masse; e chi invece si è posto la domanda se sia giusto paragonare la lotta armata in Italia alle altre lotte rivoluzionarie contemporanee che si sono svolte nel mondo, tracciando un parallelismo con le esperienze a Cuba, in Vietnam, in Cile, in Nicaragua, in Brasile e in altri posti del mondo: laddove le lotte rivoluzionarie armate hanno vinto o hanno perso.
Dire questo ed esporre queste opinioni non significa aderire a queste opinioni, ma constatare che il dibattito è ancora aperto e che è una ferita aperta da entrambi le parti, soprattutto in chi ha vissuto quella fase storica e in chi ha creduto in quella stagione di cambiamento sociale, politico e culturale. Nel bene, nel male e rifiutando la lotta armata.
Il famoso tweet della filosofa Donatella Di Cesare, che è stato rimosso tempestivamente per evitare l’ennesimo shitstorming, non è stato capito proprio da chi non era e non è nemmeno in grado di capire la complessità dell’argomento e delle sottili dinamiche da cui è attraversato.
Il tweet non venne capito proprio da quella fetta di popolazione che non è nemmeno a conoscenza del fatto che esista un dibattito acceso a livello accademico e pubblico su questi temi riguardanti gli “anni di piombo”. Stiamo parlando di perbenisti e benpensanti pronti a montare un caso su un tweet invocando il reato d’opinione con il fine strumentale di annientare una potenziale avversaria politica, trovando un escamotage per poterla attaccare. Ed ecco che, in un mondo in cui si riduce la complessità al minimo e si ragiona per slogan e visioni polarizzanti, trova spazio una campagna di odio contro una grande filosofa, che i suoi avversari non sarebbero in grado di attaccare in altro modo se non strumentalizzando singoli episodi decontestualizzati.
Donatella De Cesare, oltre ad essersi espressa numerose volte come una donna libera che parla di diritti e giustizia sociale, è nota per la sua adesione al femminismo e per le sue posizione pacifiste che l’hanno sempre portata a prendere le distanze da ogni forma di violenza. Mai la De Cesare ha omaggiato le Br e mai ha sostenuto la violenza politica, nemmeno in quel vecchio tweet stravolto per attribuirle tesi mai sostenute e parole mai pronunciate.
Come ha scritto Tridico su Facebook: “Che un partito di governo arrivi a mettere nel mirino una cittadina, la cui candidatura non è stata nemmeno ufficializzata, è un atto intimidatorio che mina la nostra democrazia. E dovrebbe preoccupare tutti”.
A proposito di storia del nostro Paese, non mi pare che Fratelli d’Italia abbia mai preso le distanze dai periodi più bui del fascismo, dello stragismo nero e a confermarlo è la Fiamma Tricolore nel logo, oltre alle candidature di persone legate a storiche famiglie rappresentanti del neofascismo italiano come Isabella Rauti – figlia di Pino Rauti, ex-repubblichino, militante dei Fasci di Azione Rivoluzionaria (FAR), storico leader del MSI e fondatore del Centro Studi Ordine Nuovo – che dal 2 novembre 2022 è sottosegretario di Stato al Ministero della Difesa nel governo Meloni.
Evidentemente ancora oggi le istituzioni democratiche non “si fondano sulla memoria condivisa”