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Dazi, come l’Europa può evitare una crisi finanziaria

Dazi, come l’Europa può evitare una crisi finanziaria

Indipendentemente da come andrà la guerra dei dazi (attualmente sospesi), l'Europa deve riuscire a rafforzarsi. Evitando di ripetere vecchi errori

Gli effetti della politica dei dazi di Donald Trump, uniti alle dichiarazioni contenute nella lettera agli investitori di Larry Fink (amministratore delegato di BlackRock, il fondo d’investimenti più grande del mondo) in merito alla probabile fine del dollaro come valuta di riserva internazionale, alle dure reazioni cinesi e alla pericolosa inconsistenza della scelta europea di puntare sul riarmo stanno generando una crisi finanziaria pesantissima. Una buona parte di questa crisi dipende anche dal fatto che la bolla delle Big Tech, capace di drogare i prezzi azionari e obbligazionari, aveva raggiunto dimensioni tali da renderla difficilmente sostenibile.

Lo sforzo di immaginare vie d’uscita dalla attuale, difficilissima situazione economica internazionale dovrebbe partire quindi proprio da queste cause. Evitando di riprodurre errori già commessi e di perpetuare ipotetiche soluzioni ancora più dannose. Certo, data l’enorme incertezza non è facile rintracciare strumenti efficaci. È di poche ore fa, ad esempio, la notizia della sospensione per novanta giorni dei cosiddetti dazi reciproci imposti dagli Stati Uniti nei confronti di tutti i Paesi (restano soltanto per la Cina). Ma alcune strade percorribili possono essere quantomeno abbozzate. E permetterebbero, tra l’altro, di non essere più così pericolosamente in balìa degli Stati Uniti.

L’Europa deve rimuovere i vincoli alla spesa pubblica, non a quella per le armi

In primo luogo occorrono politiche che mirino a ridurre le disuguaglianze sociali e la drastica contrazione dei consumi interni per evitare di generare eccessive dipendenze delle singole realtà dalle esportazioni. Il peso dei dazi trumpiani nei confronti dell’Europa nasce infatti da una patologica esigenza per i frammentati sistemi produttivi nazionali di vendere all’estero per il costante impoverimento del mercato interno dove i consumatori sono in larga misura lavoratori a bassissimo reddito, le cui retribuzioni non indicizzate e assottigliate nel tempo hanno costituito la pressoché unica forza competitiva delle imprese.

L’impoverimento passa anche attraverso la perdita di servizi pubblici essenziali la cui copertura universalistica è stata sostituita dalla proliferazione della previdenza e dall’assistenza privata, funzionali a una finanziarizzazione esasperata alla base della già accennata bolla. In questo senso, immaginare una deroga al Patto di stabilità solo per il riarmo appare un errore madornale. Non appare infatti sufficiente a sostituire in termini finanziari, nell’ottica di un capitalismo orfano dei listini statunitensi, le ipertrofiche Big Tech. E tantomeno risulta in grado di costruire una vera spinta alla ripresa occupazionale.

Sarebbe indispensabile invece una rimozione dei vincoli sulla spesa pubblica, compresa quella corrente, per evitare il ripetersi di privatizzazioni e per avviare un complesso di investimenti dalla chiara funzione anti ciclica. Una rimozione, e non semplici deroghe. Perché è l’esistenza stessa dei vincoli, anche quando sono sospesi, che ha condizionato e condiziona le scelte di medio-lungo periodo, necessarie a un’inversione di tendenza rispetto alla scomparsa della dimensione pubblica nell’economia.

Per reggere ai dazi l’Europa ha bisogno di una Bce espansiva e di politiche pubbliche

In questo senso, è fondamentale che muti radicalmente l’impostazione monetaria dalla Banca centrale europea, che dovrebbe essere chiaramente espansiva, acquistando i debiti nazionali indirizzati ad ambiti strategici, come la transizione ecologica, la lotta contro il dissesto idrogeologico e il mantenimento dell’universalismo dei servizi. E garantendo l’emissione di debito comune in grado di rappresentare uno strumento rifugio per i risparmiatori.

È bene sottolineare che azione espansiva della Bce nei confronti dei debiti nazionali e emissione di debito comune devono essere due facce della stessa medaglia, per evitare che il debito comune faccia concorrenza ai debiti nazionali più deboli. Servirebbe poi una massiccia opera di definanziarizzazione, per evitare che l’esplosione di bolle borsistiche abbiano ampie ricadute collettive. Ciò significa un radicale disboscamento degli strumenti della finanza derivata e un controllo sulla ormai evidente degenerazione degli Etf.

I dazi di Trump stanno facendo molto male, in primis, a una finanza che è riuscita ad infiltrarsi anche in fasce di popolazione con redditi a rischio fragilità per effetto della lievitazione dei fondi e delle polizze. Dunque, abbiamo bisogno di una vera Banca centrale, di politiche pubbliche di spesa realmente sociale e giusta e di una marginalizzazione della finanza. Devono essere questi i segnali di un cambiamento di paradigma che rappresenta l’unica vera alternativa a una crisi altrimenti devastante, dove tende a trionfare il primato dell’egoismo avido

Una rivoluzione fiscale che sposti la pressione dal lavoro alle rendite finanziarie

Nel nuovo paradigma deve trovare spazio centrale una rivoluzione fiscale che sappia spostare la pressione dal lavoro alla rendita finanziaria. Perché soltanto in questo modo la definanziarizzazione potrà trovare compimento. In Europa ci sono 537 miliardari (71 in Italia) che possiedono una ricchezza complessiva di 2.470 miliardi di euro. Oltre la metà di tale ricchezza deriva dai titoli finanziari di società quotate in loro possesso. Questi miliardari pagano un’aliquota sul reddito che è inferiore allo 0,2%. Se a tali patrimoni venisse applicata un’aliquota del 3%, il gettito aggiuntivo per gli Stati membri sarebbe pari a 121 miliardi di euro l’anno.

Naturalmente per rendere efficace tale tassazione servono due condizioni. La prima è la fine dei paradisi fiscali all’interno dell’Unione, a cominciare da Olanda, Lussemburgo e Irlanda. Tali Paesi sono Stati membri dell’Unione europea e fanno parte dell’Eurozona e sottraggono tuttavia direttamente agli altri membri, solo in termini di elusione fiscale, oltre 45 miliardi di euro all’anno. La seconda è l’introduzione di un vincolo all’uscita dei capitali dall’Europa. Sembra un obiettivo difficilissimo, ma è una soluzione efficace per disporre delle risorse necessarie alla giustizia sociale.

Un obiettivo che dovrebbe mobilitare le coscienze. E in realtà neppure troppo penalizzante per i super ricchi, visto che i loro patrimoni negli ultimi quarant’anni hanno avuto, stando in Europa, un rendimento medio annuo del 7% per effetto di politiche fiscali regressive e per la grande riduzione fiscale sui guadagni finanziari. Naturalmente, per fare tutto questo, serve prima di tutto una nuova cultura politica.

11/04/2025

da Valori

Alessandro Volpi

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