Guerra civile. La guerra di Trump non riconosce come parte della società americana la popolazione immigrata contro cui muove.
«No justice no peace» fu il grido che attraversò la rivolta di Los Angeles del 1992. Di estensione e violenza inaudite quell’insorgenza espresse l’accumulo di tensione estrema, ormai incontrollabile, prodotto dalla discriminazione razziale negli Stati uniti e l’enorme risentimento per le continue ingiustizie subite dalla popolazione nera e in particolare dalle sue fasce più povere. Non a caso fu una sentenza di assoluzione della violenza arbitraria esercitata dalla polizia contro un nero a fare da detonatore. Una storia che si sarebbe in seguito ripetuta numerose volte in termini analoghi sebbene su scala minore. Quella delle ribellioni contro la persecuzione discriminatoria della comunità nera, e cioè di una componente riconosciuta ma storicamente subalterna della società americana. Una storia che combinava questione razziale e conflitto di classe.
Quel che accade oggi è di ben diversa natura e forse assai più grave. La giustizia non c’entra più nulla: la guerra di Trump non riconosce come parte della società americana la popolazione immigrata contro cui muove. Non si tratta di tenerla al suo posto, come nel caso degli afroamericani, ma di espellerla e deportarla, sbaragliando al tempo stesso la cultura politica che non solo riconosce il contributo delle migrazioni antiche e recenti alla specifica natura del paese e alla sua ricchezza, ma che anche intende valorizzarlo. E non c’è teatro migliore della California, e di Los Angeles in particolare, per mettere in scena questo spettacolo di guerra contro famiglie e lavoratori precipitati nel ruolo di nemici interni.
Il cosiddetto “isolazionismo” dell’attuale amministrazione americana, se da un lato implica l’esibizione del disimpegno militare dai più lontani fronti del pianeta, dall’altro procede alla dichiarazione di un conflitto interno contro i migranti e tutti quelli che vengono ritenuti un ostacolo al ripristino della grandezza americana. È una sorta di nazionalizzazione della guerra che aspira a correggere o trasformare il sistema con la pretesa di ricondurlo “iuxta propria principia”, di restaurare la sua perduta “autenticità”, che corrisponde poi alla supremazia bianca e anglosassone.
In questa chiave l’invio presidenziale dei marines a Los Angeles, in un frangente neanche lontanamente paragonabile all’insurrezione del 1992, si avvicina molto al colpo di partenza di una guerra civile condotta dall’alto contro realtà e soggettività profondamente radicate nella società americana e nella sua coscienza. Del resto è fin dall’irruzione dei seguaci di Trump a Capitol Hill che le ombre della guerra civile aleggiano nel cielo americano. Fino ad ora le opposizioni hanno faticato a riorganizzarsi e digerire il colpo subito: le reazioni sono rimaste circoscritte al terreno giudiziario. Tuttavia, quando la resistenza si farà più decisa, più estesa, più combattiva, non è affatto escluso che lo scenario della guerra civile si dispieghi più chiaramente e la relazione politica assuma la forma prevalente della violenza.
Ma Trump non è il primo né l’unico ad avere affidato la sua immagine e gran parte della sua identità politica alla crociata contro i migranti e le loro culture.
Sulla questione dei migranti passa il discrimine tra società democratiche aperte, in un senso più pieno e solidale di quello voluto dal liberalismo, e società in viaggio verso l’autocrazia o perlomeno verso una drastica riduzione degli spazi di agibilità democratica. Il nuovo governo tedesco, in rotta con la magistratura e con il diritto europeo, affida la sua popolarità ai respingimenti e alla progressiva demolizione del diritto di asilo. Se i migranti già residenti in Germania, pur minacciati dalle aggressioni neonaziste, non rischiano la deportazione è perché centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza contro il progetto di “remigrazione” messo a punto dall’estrema destra. Un movimento che ha reso impossibile, almeno per ora, la collaborazione tra l’Afd e il centro democristiano, ma non la politica sempre più ostile e persecutoria nei confronti dei migranti, adottata dal cancelliere Merz.
Questo stesso copione tende a riproporsi in diversi paesi europei, tanto quelli con una storia di immigrazione più recente e modesta come l’Italia e i paesi dell’Est (che però sulle politiche migratorie sono tra i più incarogniti) quanto quelli come Francia e Gran Bretagna ormai storicamente multietnici e spesso teatro di rivolte riconducibili a discriminazioni e abusi di polizia a sfondo razziale. Nella maggior parte dei casi respingimenti ed espulsioni poggiano su una relazione strumentalmente ingigantita tra immigrazione e criminalità, non senza una certa presa su paure e pregiudizi popolari.
Questo nesso determina però una estensione degli apparati di controllo e una progressiva contrazione dei diritti e delle libertà individuali. Alla fine una accentuazione dei caratteri autoritari dello stato. La criminalizzazione della diversità che ai migranti si applica su larga scala, transita rapidamente verso altre categorie “trasgressive”, emarginate, subalterne o ribelli. L’aggressione parte dall’alto e da destra, come mostra l’azione di Trump. Per fermarla servirà un’azione priva di remore. In fondo è con un nuovo fascismo che abbiamo a che fare.
12/06/2025
da Il Manifesto