Pistole puntate. Sono i missili americani, oltre a quelli israeliani, che tengono sotto tiro la Repubblica islamica con le basi Usa in Turchia, Qatar e Bahrain
La pistola puntata contro l’Iran è israeliana ma l’impugnatura è in mano a Trump. Lui può arrivare a un accordo con l’Iran, lui può fermare Israele visto che è anche il suo maggiore fornitore di armi: sono i missili americani, oltre a quelli israeliani, che tengono sotto tiro la Repubblica islamica con le basi Usa in Turchia, Qatar e Bahrain.
Basi militari americane che con la flotta Usa in Bahrain e le truppe schierate in Qatar danno la dimensione di un conflitto che in realtà, con le sue conseguenze, potrebbe diventare più ampio: Russia e Cina sono alleati di Teheran ed è stata proprio Pechino a mediare il riavvicinamento storico tra Iran e Arabia saudita.
Una guerra all’Iran vedrebbe coinvolti più o meno direttamente i Paesi del Golfo, l’Iraq e il Libano degli Hezbollah e lo Yemen. Mentre il prezzo del petrolio sale, segnale di chiaro nervosismo sui mercati, gli Usa hanno già ridotto il personale diplomatico in Iraq e nel Golfo dove passa oltre il 40% di rifornimenti energetici mondiali.
Inoltre anche gli apparati Nato sarebbero messi in allarme, con la Gran Bretagna schierata al fianco di Israele. Non dimentichiamo che l’aviazione britannica e quella americana hanno condotto il 70% dei voli di ricognizione per individuare i bersagli a Gaza e in Libano. Quando l’Iran ha attaccato Israele, Usa e Gran Bretagna, e altri stati della regione, sono intervenuti a vari livelli per sostenere Israele.
Da tempo però l’Arabia saudita, che ha fatto stringere la mano di Trump e quella dell’ex jihadista siriano Al Jolani, chiede al presidente americano di frenare Tel Aviv. Un conflitto alle porte di casa per il Golfo rappresenta un pericolo: hanno già perso il conflitto con un altro alleato di Teheran, gli Houthi al potere in Yemen, dove Israele ha appena bombardato il porto di Hodeida. Una reazione degli Houthi contro Israele non è da escludere – è già accaduto durante le stragi di civili a Gaza – tenendo presente i rapporti stretti con l’Iran.
Tutto questo mentre si sta per avviare in Oman il sesto round dei negoziati Iran-Stati uniti, forse una delle ultime speranze per evitare che Israele bombardi i siti nucleari iraniani. Non che Trump sia particolarmente incline a usare la diplomazia con Teheran, tanto è vero che nel 2018 fu lui, al primo mandato, ad annullare l’accordo del 2015 firmato da Obama.
Quell’intesa non funzionò non perché fosse «pessima», come ripete Trump imbrogliando le carte per l’ennesima volta, ma semplicemente perché non venne attuata: gli americani non tolsero mai le sanzioni bancarie e finanziarie a Teheran come sa benissimo qualunque banchiere europeo. Non è un dettaglio da poco: gli iraniani potrebbero arrivare a un compromesso sull’arricchimento dell’uranio solo se avessero garanzie concrete di un alleggerimento vero delle sanzioni.
La questione iraniana è più globale di quel che si pensi. Le conseguenze del fallimento dell’accordo del 2015 sono state evidenti: l’Iran è stato spinto sempre di più nelle braccia di Mosca e Pechino. La Russia è il primo destinatario dell’industria dei droni iraniana, la Cina è il primo cliente del petrolio di Teheran. Non si contano poi le manovre militari congiunte iraniane con Mosca e Pechino e gli scambi di visite militari e diplomatiche. L’Iran è dentro al fronte bollente dei conflitti e degli interessi strategici che stanno a cavallo tra Medio Oriente e Asia centrale e fa parte dell’organizzazione dei Brics, un blocco economico che rappresenta oltre il 30% del Pil mondiale.
Trump si è vantato di poter mettere fine «in un giorno» al conflitto tra Russia e Ucraina e ora deve dimostrare, dopo tante boutade, di essere un leader credibile: se fa fare quel che vuole a Netanyahu, il suo più stretto alleato, come sta accadendo a Gaza con un carneficina disumana, ben pochi saranno disposti a dargli credito. Non solo Putin e Xi Jinping, ma anche gli stati del Golfo come Riyadh che lui vorrebbe convincere a entrare nel Patto di Abramo con Israele.
Ma come si fa ad accettarlo se Trump, il principale sponsor dell’accordo sin dal suo primo mandato, lascia mano libera a Netanyahu? Per gli arabi del Golfo un eventuale attacco di Israele potrebbe rivelarsi un mezzo disastro. Se è vero che per anni hanno temuto la potenza e l’influenza iraniana nella regione, ora stanno dando una dimostrazione di assoluta impotenza. Hanno lasciato che a Gaza si attuasse il genocidio dei palestinesi, hanno corso dietro alle deliranti proposte di Trump per «Gaza Riviera» e alle prospettive di deportazione senza muovere un dito. Ma soprattutto rischiano di mettere in mano la loro sopravvivenza a Israele. I sauditi sono i custodi dei luoghi sacri dell’islam e il loro prestigio come paese guida potrebbe venire seriamente intaccato.
In Medio Oriente si vive un paradosso lacerante: da un lato la strage a oltranza a Gaza, dall’altro un’aria di prosperità e ricchezza nel Golfo, sul versante opposto di un mondo arabo che però non ha mai niente da dire e subisce le decisioni israeliane e americane.
Come può reagire l’Iran a un attacco? Può provare a colpire Tel Aviv con missili balistici. Ma loro efficacia è tutta da provare. Il complesso militar-industriale israelo-americano è troppo superiore. Gli israeliani hanno già testato le difese della repubblica islamica e sono pronti a farlo di nuovo. Con l’attacco del 26 ottobre scorso Israele, in replica a quello di Teheran, avrebbe eliminato oltre l’80% delle difese aeree iraniane: Netanyahu ritiene la Repubblica islamica una minaccia esistenziale ed è sempre pronto a intervenire.
Forse l’unica reazione efficace di Teheran potrebbe essere una sorta di guerra asimmetrica muovendo le ultime pedine nella regione sopravvissute ai raid israeliani. Ma non è una prospettiva che salva il Medio Oriente da altre tragedie.
13/06/2025
da Il Manifesto