02/09/2025
da L'Avvenire
L’indignazione non basta più. Per fermare i crimini contro l'umanità è necessario riaffermare e rafforzare le istituzioni della giustizia internazionale
Di fronte alle atrocità di questi tempi in cui la disumanizzazione delle guerre appare irreversibile, è necessario che ci si riappropri di un senso comune per la giustizia e la verità. Il momento è cruciale per il futuro dell’umanità: le voci della società civile e dei leader responsabili non possono fermarsi alla sola indignazione, ma devono reclamare con forza ancora la necessità di riaffermare il diritto internazionale, e dare un fermo ultimatum per chi non si ravvede per tempo.
La memoria storica per l’affermazione dei principi inderogabili che tutelano l’umanità dalla deriva delle guerre deve essere un riferimento costante. In questi giorni è il caso di ricordare cosa significò il Tribunale di Norimberga, che proprio nell’agosto del 1946 vide la fase cruciale del dibattimento. All’apertura del processo il procuratore americano Robert Jackson aveva esordito: «Il principio della responsabilità penale personale è necessario e logico affinché il diritto internazionale contribuisca effettivamente al mantenimento della pace». Concluse, lungimirante: «La civiltà moderna pone nelle mani di uomini armi di distruzione illimitate e non può tollerare un’area così vasta di irresponsabilità giuridica». Fino ad allora nessuno era stato imputato per una guerra (era rimasto immune il Kaiser Gugliemo II di Hoenzollern, benché il Trattato di Versailles ne reclamasse il processo per aver causato la I guerra mondiale) o per categorie di reati che non comparivano nei codici.
Oltre a giuristi del calibro di Hans Kelsen, erano stati i colleghi ebrei polacchi Herscht Lautepacht e Raphael Lemkin – entrambi con un comune percorso di docenti a Leopoli, oggi città dell’Ucraina, coincidenza su cui riflettere – a contribuire alla formulazione dei capi d’accusa: oltre alla contestazione dei “crimini contro la pace” in violazione del Patto Briand-Kellog del 1928 e dei “crimini di guerra” previsti dal diritto bellico, fornirono la base dottrinale per contestare ai nazisti i “crimini contro l’umanità” e il “genocidio”. Finalmente prendevano corpo definizioni che inquadravano le atrocità dell’Olocausto, che altrimenti sarebbero rimaste “crimini senza nome”. Sulla base degli stessi principi il Tribunale di Tokio condannò i criminali di guerra giapponesi, e configurò per la prima volta nel caso Yamashita la dottrina della “responsabilità di comando”, anche solo omissiva nel controllo dei sottoposti.
Per questo è un giudizio superficiale e anti-storico quello di chi tende a liquidare i Tribunali di Norimberga e Tokio come “tribunali dei vincitori”. Le costruzioni giuridiche di Lautepacht e Lemkin avrebbero portato all’adozione – a New York, il 9 dicembre 1948 – della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Inoltre, pochi anni dopo, su mandato della Risoluzione 95/I dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Comitato di diritto internazionale stabilì che andavano riconosciuti nel diritto consuetudinario (quindi al di sopra dei trattati) i Principi di Norimberga, fra cui il principio della responsabilità penale internazionale (superiore a quella di diritto interno), la colpevolezza anche nel caso si sia agito per un ordine superiore, e l’irrilevanza per i crimini internazionali della prescrizione e delle immunità, anche per i capi di stato e di governo.
Proprio nell’agosto del 1946 il Tribunale
vide la fase cruciale del dibattimento,
portando a definizioni capaci di inquadrare
le atrocità dell’Olocausto, che altrimenti
sarebbero rimaste “crimini senza nome”
Al processo di Norimberga - dove non si compirono torture, le sedute furono pubbliche e si concessero ampi diritti alla difesa - la protervia dei gerarchi di Hitler fece posto alla loro miseria umana. Il Vice Cancelliere Hermann Göring diede sfoggio della sua insana megalomania indossando l’uniforme di Maresciallo del Reich, e con un ghigno sul volto si pose sul banco degli imputati in prima fila: quando apprese di essere condannato alla pena capitale, si suicidò con il cianuro. L’ex capo del Fronte del Lavoro, Robert Ley, alcolista, fedelissimo di Hitler e fervente antisemita, diede segni di pazzia e si impiccò. Rudolf Hess, il vice del Fuhrer, si chiuse in un mutismo assoluto sostenendo di aver perso la memoria. In realtà fingeva: si ravvide pensando che sarebbe stato meglio difendersi dalle accuse e proclamando in udienza: «Signor Presidente, la mia memoria è tornata normale!».
Le sentenze arrivarono a fine settembre: furono assolti Von Papen, Fritzche, e Schact, e, in successione condannati a dieci anni Donitz, a quindici von Neurath, a venti Speer e von Schirac, all’ergastolo Hess, Funk e Reader. La pena capitale mediante impiccagione fu decisa per 11 imputati: Goring, Ribbentrop, Streicher, Borman, Keitel, Kaltenbrunner, Frank, Rosemberg, Frick, Sauckel, Seyss-Inquart e Jodl. Gli epiloghi per i due leader responsabili della II guerra mondiale, Hitler e Mussolini, sono noti: il primo si suicidò in un bunker, mentre per il secondo prevalse il rancore di Piazzale Loreto, prima della giustizia.
Piuttosto che delegittimare la Corte penale
in nome di un insano ritorno al sovranismo,
i governi che rifiutano le logiche di potenza,
la maggioranza di quelli che siedono
alle Nazioni Unite, farebbero bene a rafforzarne il ruolo
Altri processi si celebrarono davanti ai tribunali nazionali anche dopo anni, per i principi di imprescrittibilità e universalità: per il diritto internazionale umanitario i crimini di guerra e contro l’umanità non hanno limiti di perseguibilità, ovunque e sempre. Hannah Arendt ha raccontato lo storico processo Eichmann: è sua la definizione – nell’omonimo libro – sulla banalità del male per descrivere l’ignavia dell’ ex SS Obersturmbannfuhrer Adolf Eichmann. Catturato dagli israeliani in Argentina, nel 1961 il tribunale distrettuale di Gerusalemme lo condannò all’impiccagione per l’uccisione di milioni di ebrei. Nei decenni successivi purtroppo le guerre non finiranno, e seguiranno altri processi internazionali, pur tra polemiche e ritardi: saranno comunque condannati i carnefici di altri genocidi, davanti ai Tribunali del Ruanda e dell’ex Jugoslavia.
I criminali di guerra per lungo tempo possono forse considerarsi intoccabili, ma è il caso di ricordarne il destino: per coloro che si pongono fuori dall’umanità la Storia insegna che non è raro che la giustizia internazionale si compia, ed è il momento di richiamarla. I principi di Norimberga sono stati recepiti nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, la più avanzata opera di codificazione del diritto internazionale umanitario. Piuttosto che delegittimarla in nome di un insano ritorno al sovranismo penale, i governi che rifiutano le guerre e le logiche di potenza – di certo la maggioranza di quelli che siedono alle Nazioni Unite – farebbero bene a rafforzarne il ruolo: è la strada per fermare le stragi di guerra, gli esodi forzati di intere popolazioni, la pulizia etnica e l’ombra sempre più incombente di nuovi genocidi.