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L’Iran un anno dopo Mahsa

L’Iran un anno dopo Mahsa

Minacce alla famiglia, arresti preventivi e una vittima alla vigilia dell’anniversario della morte della 22enne in carcere per aver indossato in maniera sbagliata il velo, il 16 settembre 2022. Le proteste di massa, capaci di portare in piazza decine di migliaia di persone, sono finite da mesi, schiacciate dal pugno di ferro del regime. Ma la società civile iraniana resiste e a suo modo si oppone ad un regime e maschilista feroce e assieme caricaturale

Solo un anno fa Mahsa Amini

Un anno dopo la morte in custodia della 22enne Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, arrestata in quando ‘mal velata’, continua a sfidare il potere paranoico religioso degli ayatollah attraverso l’Iran. Sottotono, certo, rispetto all’esordio, riconosce Lucia Capuzzi su Avvenire. «La rivolta ha perso il carattere plateale per diventare ostinata resistenza quotidiana».

Resistenza quotidiana

«Quelle delle ragazze che escono senza hijab, nonostante molte vengano fermate, insultate o malmenate. Quella dei lavoratori che, nei diversi settori, ciclicamente, incrociano le braccia», l’incubo dell’84enne ayatollah Ali Khamanei e del presidente falco, Ebrahim Raisi, che, da settimane, hanno intensificato la repressione per impedirle.

La polizia immorale

Da metà luglio, le squadre della ‘Gasht-e-Ershad’, la polizia morale, sono tornate a pattugliare per verificare il ‘corretto’ impiego dell’hijab, insieme alle onnipresenti telecamere per il riconoscimento facciale. Dalla fine di agosto, i parenti degli attivisti noti e incarcerati sono stati pesantemente minacciati o arrestati. Il 5 settembre, è finito in cella lo zio di Mahsa, Sali Aeli. L’intera famiglia della giovane ha subito pesanti minacce per annullare la commemorazione religiosa al cimitero di Saqqez prevista per domani.

Il loro avvocato, Saleh Nikbakht – che fin dal principio ha contestato la versione ufficiale della morte della giovane, attribuita dalle autorità a un problema cardiaco – è in prigione con l’accusa di «propaganda contro il sistema».

Persecuzioni

Centinaia di arresti, rapimenti, torture, impiccagioni, inasprimento delle leggi islamiche. Colpiti i familiari delle vittime, giornalisti, avvocati. A pagare il prezzo maggiore sono soprattutto le minoranze etniche e religiose come curdi, beluci e azeri. Arresti a scopo preventivo di amici, fratelli, anche minori, e di genitori delle vittime della repressione delle rivolte antigovernative. Non sono risparmiati dalla falcidia di arresti quotidiani nemmeno i giornalisti che hanno seguito le proteste e gli avvocati.

Donne e giornaliste

Le giornaliste Negin Bagheri e Elnaz Mohammadi, del quotidiano digitale Ham Mihan, sono state condannate a tre anni per «cospirazione», mentre la reporter Nazila Maroufian è tornata in prigione per la seconda volta in un anno. E la connessione di molti siti e media indipendenti va a singhiozzo da giorni, con veri e propri black-out a Zahedan, nella provincia sud-orientale del Sistan-Baluchistan, una delle zone più calde, dove tuttora si registrano cortei dopo la protesta del venerdì.

Senza intelligenza, neppure artificiale

Artisti, cantanti, figure pubbliche sono sotto stretta ‘osservazione’. Gli atenei ‘colpevoli’ di avere offerto rifugio e supporto ai dimostranti hanno subito una vera e propria purga, con decine di docenti licenziati. Perfino il famoso esperto di intelligenza artificiale Ali Sharifi Zarchi ha perso la cattedra alla prestigiosa università Sharif di Teheran. Mentre i 22mila dimostranti amnistiati hanno ricevuto un avvertimento chiaro da uno dei vertici del potere giudiziario, Sadegh Rahimi: qualunque iniziativa sarà punita, stavolta, con un castigo doppio. Hamed Bagheri, attivista curdo, è stato ucciso dalle forze di sicurezza a una trentina di chilometri da Teheran per aver incitato le persone a manifestare.

‘Inimicizia e odio contro Dio’

All’aumento delle quotidiane esecuzioni per impiccagione –denuncia Mariano Giustino-, seguono tattiche per prevenire lo scoppio di altre rivolte da parte di una popolazione, in particolare giovanile, insofferente, molto arrabbiata, che non ha nulla da perdere e che quindi desidera il rovesciamento del regime. Le autorità iraniane usano strategie ingannevoli per scoraggiare la ribellione come quella della finta amnistia proclamata nel gennaio 2023, quando annunciarono la scarcerazione di 82 mila prigionieri, 22 mila dei quali erano manifestanti. Poco dopo la Magistratura ha cominciato a convocare i manifestanti che aveva scarcerato e a rimetterli in carcere con altre accuse. Dei giornalisti abbiamo detto. Gli avvocati a seguire. Almeno 130 tra cui dozzine di donne convocati o arrestati. Tra le accuse opinioni sui social media, considerate espressioni di «inimicizia e odio contro Dio».

«Zan, Zendegi, Azadi»

L’ostinazione con cui il regime sta perseguendo il dissenso, reale o presunto, non fa che confermare, però, quanto potente ancora risuoni per l’Iran il grido «Zan, Zendegi, Azadi» ovvero «Donna, vita, libertà». E la sua eco, rimarca Lucia Capuzzi, va ben oltre la quantità di capelli che una testa femminile è autorizzata a mostrare. Non a caso, lo slogan-simbolo della rivolta è stato inventato da un giovane uomo, che l’ha trasformato in canzone e diffusa su Twitter. Le donne e la loro lotta contro l’hijab la punta di un movimento in cui si trovano minoranze etniche e religiose, i giovani affamati di libertà e le famiglie impoverite dalla cronica crisi economica, innescata dal ripristino delle sanzioni Usa dopo il ritiro unilaterale dall’accordo sul nucleare da parte dell’amministrazione Trump.

‘Guerra’ americana a coprire il fallimento del regime

In cinque anni, la moneta locale ha perso il 66 per cento del suo valore, l’inflazione galoppa, i prodotti di importazione scarseggiano nei bazar. La recessione strangola i salariati e la classe medio-bassa mentre la morsa si allenta progressivamente man mano che ci si avvicina ai vertici del regime.  

16/09/2023

da Remocontro

Remocontro