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Oggi 80 anni fa la firma segreta della resa annunciata l’8 settembre

Oggi 80 anni fa la firma segreta della resa annunciata l’8 settembre

Tra pochi giorni gli ottanta anni di una delle pagine più drammatiche e dolorose della storia d’Italia nel XX secolo. Un popolo già logorato da una guerra insensata e persa lasciato nelle mani di feroci occupanti, e un esercito, ciò che restava, lasciato allo sbando.
Traditi e traditori. Ci furono atti di grande coraggio da parte di pochi e il poco noto episodio di alcuni parà fascisti ammutinati che uccisero un ufficiale che ripeteva l’ordine di resa, ma – assieme a tanti altri episodi di un quadro più esteso – ci ricordano che l’Otto Settembre non fu affatto una vicenda da ‘commedia all’italiana’, né si assisté ad una fuga generale.

L’armistizio di Cassibile firmato il 3 settembre e diramato l’8 settembre del 1943, con il quale l’Italia si arrese

Tragedia di un popolo, di un esercito e di una classe politica

Al momento della diffusione della notizia dell’armistizio con gli anglo-americani, firmato a Cassibile in Sicilia il giorno 3, parte delle forze armate italiane erano schierate fuori dal territorio nazionale, in Francia, nei Balcani e in Grecia. Dalla Francia meridionale si ritirò attraverso le valli del Cuneese un’intera armata: giunta a Caraglio e bloccata dai tedeschi che risalivano dalla pianura, l’armata fu costretta sciogliersi. Sorsero così dei primi piccoli gruppi di resistenti, ma molti furono catturati dai tedeschi ed internati in Germania, mentre solo pochi riuscirono a sfuggire.
Più difficile la situazione negli altri teatri: in Jugoslavia ad esempio un reparto italiano aprì il fuoco contro i tedeschi che intimavano la consegna delle armi e nacque così la brigata partigiana Garibaldi che combatté con le forze di Tito. In Grecia, per la frammentazione e la mancanza di collegamenti, molti reparti furono facilmente catturati, mentre altri opposero una resistenza disperata come a Cefalonia e Coo.
La gran parte dell’esercito sul territorio nazionale fu invece presa prigioniera senza combattimenti, ma anche qui non mancarono episodi di resistenza, come ad esempio la breve e sfortunata difesa di Roma. A conclusione dell’«Operazione Achse» che i tedeschi avevano cominciato a pianificare già dal 25 luglio (Gran Consiglio del fascismo e caduta di Mussolini), i militari italiani deportati in Germania furono oltre seicentomila: venti mesi nei lager nazisti o in campi di lavoro, privati dello status di prigionieri di guerra che avrebbe consentito il minimo di assistenza garantito dalle convenzioni internazionali, e soprattutto soggetti a forti pressioni per aderire alla repubblica di Salò. Solo poche migliaia decisero di aderire perché –come scrisse un internato– «per rimanere liberi, bisognava restare in prigionia».

A Tarvisio

Dopo il Brennero il valico di frontiera più importante tra il regno d’Italia e il Reich si trovava a Tarvisio, una conca alle pendici della Alpi Giulie. I tedeschi annettevano grande importanza strategica alla località il cui possesso avrebbe consentito il controllo anche delle altre vallate a oriente e per questo avevano concentrato e nascosto le loro forze non solo nella piana di confine, ma anche in territorio italiano. Mentre la Wehrmacht scendeva indisturbata in Italia dal Brennero, a Tarvisio si rafforzava lentamente per sfondare all’improvviso la frontiera.
La guarnigione italiana alla notizia dell’armistizio era stata messa in allarme: si trattava tra l’altro di un’unità poco numerosa e priva di armi pesanti, composta per lo più di appartenenti alle classi più anziane. Nel corso della notte tra l’otto e il nove settembre il comandante tedesco intimò la consegna delle armi e la resa, ma ottenne una risposta negativa. I tedeschi aprirono il fuoco contro la caserma e circondarono il centralino telefonico pubblico, che era rimasto l’unico mezzo di comunicazione con l’esterno. Per tutta la notte attraverso la linea telefonica furono inviate richieste urgenti di rinforzi, ma nel frattempo il caos aveva raggiunto gli alti comandi e le richieste rimasero inascoltate.
Aumentava invece l’irritazione dei tedeschi di fronte a questa inattesa resistenza, fino a che non fu piazzato un cannone leggero che sistematicamente rase al suolo le difese improvvisate. Dei circa trecento militari che si erano opposti alla furia nazista se ne salvò appena un centinaio che fu deportato in Germania. L’episodio di Tarvisio è ricordato anche per una vicenda singolare: la centralinista che rimase con i militari a chiedere aiuto fu una delle prime donne a ricevere una decorazione al valor militare, la prima della Resistenza.

In Sardegna

Più complessa la situazione in Sardegna. Alla data dell’Otto Settembre sull’isola si trovava una sola divisione tedesca che aveva fatto parte dell’Afrika Korp ed era stata inviata per riposarsi e riorganizzarsi. Di fatto le forze italiane erano numericamente superiori a quelle tedesche, ma i tedeschi erano veterani, addestrati e ben equipaggiati e soprattutto determinati a combattere. In un primo tempo -prima della comunicazione dell’armistizio- al comandante italiano era stato dato l’ordine di non ostacolare un’eventuale partenza dei tedeschi, ma in seguito l’ordine era stato cambiato in senso opposto per impedire che una forte unità tedesca sfuggisse in Corsica.
In un crescendo di situazioni difficili e confuse la determinazione tedesca ebbe la meglio tanto che riuscirono ad occupare la base militare della Maddalena, la più munita del Mediterraneo, e a trattenere l’ammiraglio italiano fino al 13 settembre, quando fu liberato dopo un combattimento.
Più dolorosa un’altra vicenda di quei giorni, perché furono italiani e non tedeschi a sparare ad altri italiani. Un battaglione di paracadutisti della divisione Nembo, ritenendo che l’armistizio fosse stato un tradimento, aveva deciso di seguire i tedeschi nell’abbandono della Sardegna: un atto di insubordinazione inaccettabile. Per questo era stato inviato il capo di stato maggiore della divisione per fermare gli ammutinati: all’ingresso del campo dei rivoltosi, dopo un alterco violento, era partita una raffica di mitra che aveva colpito mortalmente l’ufficiale. A rendere ancora più oscuro l’episodio rimase inspiegato il fatto che il corpo dell’ucciso fosse stato gettato in mare nei pressi di Santa Teresa di Gallura. Nel dopoguerra un processo condannò il responsabile.

03/09/2023

da Remocontro

di Giovanni Punzo