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80 anni fa la fine luglio più torrida: Mussolini, il fascismo, il Re e il Vaticano

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I labirinti del 25 luglio 1943

L’immagine più conosciuta del 25 luglio 1943 è la riunione del Gran Consiglio del fascismo con la richiesta di dimissioni di Mussolini e il suo arresto al Quirinale. In realtà già da tempo si sapeva che la guerra era perduta, e molti sostenevano che si dovesse abbandonare l’alleanza con la Germania, sostituire Mussolini al governo e avviare trattative di pace con gli anglo-americani.
Al Quirinale, nella segretaria del partito fascista, nello stato maggiore e anche in Vaticano si svolsero incontri, segrete conversazioni e larvate congiure, ma non si prese nessuna decisione: per interessi personali o per altri timori molti attesero gli eventi per salire sul carro del vincitore.

I labirinti del 25 luglio 1943

Il Quirinale

Un esponente dell’Italia liberale prima della marcia su Roma come Ivanoe Bonomi aveva preso contatto con il re il 2 giugno 1943, ma l’esito dell’udienza era stato pressoché nullo. Vittorio Emanuele, al quale era stata fatta presente la drammatica situazione, nonostante gli accorati appelli di Bonomi alle tradizioni liberali del Risorgimento e di casa Savoia, si era trincerato dietro gli ‘obblighi costituzionali’ riassunti nella famosa frase «il re regna ma non governa»: un intervento regio sarebbe stato insomma una violazione dello Statuto, pur tacendo sulle altre violazioni commesse dall’ottobre 1922 all’estate 1943 da parte di Mussolini. Come scrissero nelle memorie alcuni protagonisti, la sensazione diffusa era insomma che al Quirinale sedesse una sfinge.
All’insaputa però dei tanti esponenti liberali che attendevano un cenno – tra i quali anche Benedetto Croce Vittorio Emanuele Orlando – il re, di fronte all’ipotesi di un nuovo governo che comprendesse vecchi esponenti liberal-conservatori, si era espresso con una frase in piemontese: «Ma a sun di revenan!» (ma sono dei redivivi!). La mancanza di fiducia nei loro confronti risaliva al 1922, quando, sentendo vacillare il trono, aveva incaricato «l’uomo forte Benito Mussolini di formare il nuovo governo». In quel momento però, per salvare lo stesso trono che vacillava molto di più che nel 1922, occorreva allontanare proprio «l’uomo forte».

Il Partito Nazionale Fascista

Le difficoltà del paese, che oltretutto era praticamente impossibile nascondere o camuffare, erano ben note all’interno del partito fascista, come pure l’ondata di profondo malcontento che si stava levando in vari ambienti. Benché possa sembrare paradossale, perfino Roberto Farinacci, più fascista di Mussolini e il più filotedesco tra i gerarchi, aveva formulato un piano per ridurre il potere del duce: il 21 luglio, in un colloquio con l’ambasciatore tedesco a Roma von Mackensen, aveva chiesto la collaborazione tedesca per azzerare i vertici militari italiani, sospettati tra l’altro di essere conniventi con la monarchia, e mettere le forze armate sotto un unico comando, verosimilmente tedesco. Sempre con l’aiuto dei camerati germanici si sarebbe proceduto a ripulire «le stalle di Augia» (il letamaio del re dell’Elide), del partito e la guerra a fianco della Germania sarebbe proseguita con nuovo vigore.
In altre parole l’anticipazione di temi che sarebbero diventati l’ispirazione della repubblica di Salò, ma nello stesso partito altri avevano intendimenti ben diversi: Bottai ad esempio stava tentando di contrapporre il partito al duce, senza rendersi conto che invece gli italiani avrebbero voluto sbarazzarsi dell’uno e dell’altro, e Grandi redigeva il famoso ordine del giorno, continuando a modificarlo, ma con poca fiducia nella riuscita dell’operazione.

I militari

Anche nel caso dello stato maggiore in apparenza prevaleva una linea attendista, ma contatti riservati con il re erano già stati avviati dal maresciallo Badoglio e dal nuovo capo di stato maggiore generale Ambrosio. A febbraio infatti era stato silurato il maresciallo Cavallero, ritenuto eccessivamente filo-tedesco (ed amico di Farinacci), e Ambrosio stava riorganizzando il comando eliminando i simpatizzanti per la Germania. Emersero allora figure come il generale Carboni, capo del servizio informazioni militari, e Castellano, che poi avrebbe firmato l’armistizio con gli anglo-americani a Cassibile il 3 settembre. Le idee erano però molto chiare: il generale Ambrosio, scrupoloso e preveggente, incaricò uno dei suoi aiutanti di una ricognizione a palazzo Venezia, nell’eventualità di arrestare Mussolini con un colpo di mano.
Idee talmente chiare che, a raffreddare gli entusiasmi, intervenne il ministro della real casa duca Acquarone che – parlando probabilmente a nome del re – raccomandò la massima prudenza e fece rallentare i preparativi. Nel frattempo cominciò anche la sorveglianza dei reparti delle SS che si trovavano giù in Italia e anche di una divisione italiana, composta da elementi della milizia fascista, particolarmente temuta sia perché composta da elementi fidatissimi, sia perché disponeva di armi ed equipaggiamenti tedeschi.

Il Vaticano

Luci e ombre anche nei rapporti diplomatici con la Santa Sede. L’incaricato d’affari americano in Vaticano segnalò prontamente al segretario di Stato Cordell Hull che, dopo la destituzione dalla carica di ministro degli esteri, Galeazzo Ciano (che anche era il genero di Mussolini), era stato nominato ambasciatore presso la Santa Sede: secondo il diplomatico statunitense era il momento giusto per sondare l’Italia riguardo l’ipotesi di pace separata con gli anglo-americani, ma non con l’Unione Sovietica.
In realtà, Roosevelt, Churchill e de Gaulle, che si erano riuniti a Casablanca all’inizio del 1943, avevano già deciso per l’Italia l’«unconditional surrender» (resa senza condizioni), né – come si vide nelle vicende che fecero contorno alla notizia dell’armistizio – avevano intenzione di recedere. Il 17 giugno nel corso di una visita del nunzio apostolico al Quirinale che prudentemente accennò alle proposte alleate, il re rispose di escludere un colpo di mano contro palazzo Venezia e di nutrire invece forti sospetti sulla lealtà del governo inglese.
Aggiunse di non credere nella possibilità di uno sbarco in Sicilia, sebbene il giorno 11 fosse già stata occupata Pantelleria, e nonostante la crisi tedesca sul fronte orientale, ritenne ancora possibile un rovesciamento della situazione a favore dei tedeschi. Continuò insomma nella dissimulazione, come aveva già fatto con altri interlocutori.

Epilogo

Il vero vincitore alla fine fu «la sfinge»: sebbene nessuno del Gran Consiglio volesse in realtà l’arresto di Mussolini, ma solo una sua uscita di scena, a villa Savoia l’ex presidente del consiglio fu fatto salire in un’autoambulanza che raggiunse una caserma dei carabinieri. Il fascismo era caduto e cominciavano i «45 giorni» del governo Badoglio che avrebbe riservato altre sorprese agli italiani.

25/07/2023

Abbiamo ripreso l'articolo

da Remocontro

Giovanni Punzo