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I problemi della Cina lungo le spesso rischiose ‘Nuove vie nella seta’

I problemi della Cina lungo le spesso rischiose ‘Nuove vie nella seta’

29/03/2023

Remo Contro

Piero Orteca

 

Tra le ‘belt and road initiative’ tracciate dalla espansiva politica cinese alcune iniziative si sono rivelate baratri economici con una quantità  di soldi che i cinesi prestano ma non riescono più a recuperare, salvo e solo a volte la proprietà di spezzoni di opere lasciate senza un oltre. Le critiche sempre sospettabili di parte occidentale via Financial Times e l’India concorrente, ma sulla stessa scia.

    Immagine rimossa.

La tante ‘Nuove vie della seta’

La ‘belt and road initiative’, la ‘iniziativa infrastrutturale strategica’ cinese che, nella traduzione dorata della politica mutuata dal giornalismo è diventata una sorta di favola con Marco Polo e Via della seta all’incontrario, alla  conquista dei mercati europei e non solo. Un progetto, che punta a un’espansione globale cinese, trainata dalla realizzazione di reti di trasporti, idriche e di urbanizzazione, arditamente finanziate dalle grandi banche del colosso asiatico con la concessione dei prestiti ‘monstre’ per la realizzazione delle opere, che spesso ignorano l’abc del ‘rischio sistemico’.

Trilioni di dollari

Su quasi un trilione di dollari di prestiti ‘audaci’ nel corso degli ultimi anni si sono accumulate decine di miliardi di ‘sofferenze’. Colpa di iniziative nate dal peggio di due modelli: la farraginosa pianificazione centralizzata marxista e il capitalismo di cartone degli investitori d’assalto. Come risultato, prestiti facili, concessi a paesi debitori che già erano quasi alla fame, non sono stati certo un buon affare. Se mai è stato soltanto un affare economico.

Colonialismo alla rovescia

Una forma di colonialismo alla rovescia, dove la penetrazione di tipo politico segue quella economica e finanziaria. Quest’ultima alimenta la realizzazione dei network infrastrutturali, che sono il marchio visibile (e spesso apprezzato) della presenza cinese. Ma adesso gli analisti dicono che molti progetti sembrano improvvisati e privi dei necessari approfondimenti sui possibili scenari finanziari da affrontare. Mancano quasi sempre studi sugli impatti ambientali e sociali delle opere da realizzare, e la cosa si traduce in proteste e ritardi che influiscono sulla tempistica e sui costi.

Debitori inaffidabili

Ma la nota più dolente è quella relativa ai partner che vengono scelti per la realizzazione di progetti spesso sproporzionati. Finanziare paesi come Argentina, Sri Kanka, Zambia e Iran è stato un azzardo economico tale che ha costretto Pechino a convertire velocemente i suoi interventi da ‘prestiti di progetto’ a ‘prestiti di salvataggio’. Va anche detto che in pochi anni, la Cina ha rigidamente seguito una tabella di marcia che l’ha fatta diventare il più importante attore finanziario mondiale, per i paesi in via di sviluppo.

La Cina più di FMI e World bank

Uno studio analitico proposto, qualche tempo fa, dal journal of international economics, afferma che “a partire dal 2017 le banche del colosso asiatico sono diventate le più importanti creditrici ufficiali del mondo, superando il Fondo monetario internazionale e la World bank messi assieme. La Cina concede, inoltre, agli stati in via di sviluppo, più prestiti del totale di tutte e 22 le nazioni del club di Parigi. ma qual è la situazione attualmente, e che rischi corre l’impianto della BRI, le spesso perigliose ‘Nuove vie della seta?’.

Versione Financial Times

Il Financial Times non è tenero col progetto di Xi Jinping e cita un recente studio condotto da Aiddata, World bank, Harvard Kennedy school e Kiel Institute for the world economy. Dall’analisi emerge che in meno di tre anni (2019-2021) la Cina ha concesso 104 miliardi di dollari in prestiti di salvataggio, a paesi in via di sviluppo. Somma che equivale, quasi, all’ammontare dei due decenni precedenti. In totale, a partire dal 2000, Pechino è stata obbligata a intervenire 128 volte in 22 nazioni, con erogazioni di ‘pronto soccorso’ pari a 240 miliardi di dollari.

I salvataggi cinesi (sempre Financial Times) costano ovviamente di più (5%), di quelli del fondo monetario internazionale (2%), e sempre ovviamente sono accordati a quei paesi che risultano più esposti con le banche del colosso asiatico.

Ma se anche l’India segue?

Negli ultimi tempi, sono cresciute polemiche e resistenze in aree come il Bangladesh e il Pakistan, nei confronti della penetrazione finanziaria cinese. Ma le disavventure economiche di Xi Jinping, però, hanno svegliato dal torpore un altro gigante: l’india di Narendra Modi. Con 300 linee di credito e 600 progetti, Nuova Delhi cerca di fare concorrenza a Pechino nel sostegno al ‘partenariato infrastrutturale’ nell’Asia meridionale.

Niente di clamoroso, per ora, solo un centinaio di miliardi di dollari. Che però bastano, per entrare in concorrenza con le ambizioni di Xi, ma assieme in opposizione parallela al monopolio finanziario occidentale e alla sua politica dei crediti.